Finché c’è guerra
Saranno in tanti, ne siamo sicuri, a ricordare l’ineffabile e indubbiamente cinico Alberto Sordi di Finché c’è guerra c’è speranza, film da lui anche diretto, nel lontano 1974. Sono passati decenni, ma certe problematiche sembrano essere rimaste le stesse. Purtroppo. Facciamo quindi un piccolo passo indietro nel tempo (e nella storia del cinema), per tornare poi a epoche più recenti. Lo scaltro trafficante d’armi italiano da lui interpretato, solo verso la fine mostrava di avere una crisi di coscienza, subito messa a tacere dai tentennamenti e dall’ipocrisia della sua borghesissima famiglia. Ecco, per via di un memorabile cortocircuito tra finzione e realtà, pare proprio che quel difficile percorso di redenzione abbia avuto modo di concretizzarsi nella vicenda personale di Vito Alfieri Fontana, qui ottimamente raccontata dal documentarista Mattia Epifani.
Ex proprietario della Tecnovar, azienda pugliese divenuta leader nella progettazione e nella vendita delle terribili mine antiuomo, Vito Alfieri Fontana per un certo periodo della sua vita ebbe come solo scopo tenere in salute l’azienda ereditata dal padre, procedendo anzi a un aggiornamento tecnologico che specialmente nei turbolenti anni ’90 gli consentì una vendita sempre più massiccia di armi talmente distruttive e spietate, presso i fronti di guerra più caldi del pianeta. Come ad esempio nella ex Yugoslavia allora devastata da conflitti etnici. Ma fu proprio l’avvicinarsi al teatro delle operazioni, il presenziare a incontri con altri specialisti del settore, rappresentanti militari dei governi locali e mediatori internazionali, ad accendere con più forza in lui la consapevolezza di quanti danni e violenze irreparabili stesse portando nel mondo la sua attività. Da lì una profonda crisi interiore. E, mirabile dictu, la decisione di cessare le vendite per collaborare in prima persona, come volontario, allo sminamento delle zone ritenute ancora pericolose e insicure dopo la fine della guerra in Bosnia.
Nel documentario a lui dedicato, Il successore, la regia di Mattia Epifani rimane sempre molto attenta ad evitare il rischio di una troppo facile retorica, possibile trappola cui si preferisce invece la costruzione di autentici spazi di riflessione; nonché di una suspance interna capace di far scorrere in parallelo la storia del protagonista e quella di un ex soldato bosniaco, che su una di quelle mine perse la gamba, per poi legarle tra loro con una tempistica praticamente perfetta. Anche questo ha fatto sì che il lavoro di Mattia Epifani sia risultato finora uno dei più seri, maturi, oltre che tra i più interessanti in virtù del soggetto, all’interno di un Visioni Fuori Raccordo 2016 che al Palladium ha continuato comunque a regalarci sguardi personali e contenuti di pressante attualità.
Stefano Coccia