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Il ritorno di May Poppins

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VOTO: 5

Un (in)atteso ritorno

Rob Marshall, si sa, è da sempre un regista piuttosto “modaiolo” e attento alla cura dell’immagine, con una spiccata predilezione per colori dai toni forti, siano essi tendenti al pastello o con una prevalente tendenza “dark”. Se, dunque, a tutto ciò uniamo una marcata spettacolarità degna di un palcoscenico di Broadway, ecco che il pubblico di certo ne resterà colpito. Nel bene o nel male. E se, infatti, molti sono stati i consensi per lavori come Chicago (2002) o Nine (2009), in cui il cineasta e coreografo statunitense sembrava perfettamente a proprio agio, aver ottenuto un incarico impegnativo come quello di dirigere il sequel dell’ormai cult Mary Poppins (diretto nel 1964 da Robert Stevenson), si è purtroppo rivelato un’arma a doppio taglio. E, di fatto, il suo Il ritorno di Mary Poppins – tratto dal romanzo “Mary Poppins” ritorna, scritto sempre da P. L. Travers nel 1935 – è, purtroppo, una pellicola che presenta non poche problematiche.

Riprendendo il discorso da dove tanti anni fa era stato interrotto, dunque, ci troviamo, stavolta, sempre a Londra, ma non più nel 1906, bensì nel 1930. Jane e Michael Banks (Emily Mortimer e Ben Wishaw) sono ormai adulti: la ragazza ha ereditato dalla madre la voglia di darsi da fare come attivista, mentre suo fratello, impiegato nella stessa banca dove hanno lavorato suo padre e suo nonno, è da poco rimasto vedovo e vive nella stessa casa di famiglia insieme ai tre figlioletti John, Annabelle e Georgie. Il ragazzo, tra l’altro, si trova in serie difficoltà economiche e, se non trova alcune azioni lasciategli in eredità dal padre, rischia di perdere la casa di famiglia. In una situazione così difficile e caotica, ecco che fa il suo ritorno la cara bambinaia Mary Poppins (questa volta interpretata da Emily Blunt), la quale sembra sempre giovane come lo era tanti anni prima e si prenderà cura sia dei bambini che degli stessi Jane e Michael.
Fatta eccezione, dunque, per la mancanza di una delle colonne portanti del precedente lavoro (ossia il mitico Mister Banks, a cui tutti – chi più chi meno – siamo decisamente affezionati), fin qui sembra che tutto vada bene. Il problema, però, sta sia nella messa in scena che nell’interpretazione degli stessi protagonisti. L’occhio registico di Rob Marshall, infatti, sembra non sposarsi affatto a un contesto come quello degli anni Trenta: colori troppo accesi, effetti speciali che, volendo a tutti i costi ricalcare quanto realizzato nel 1964, finiscono irrimediabilmente per avere un effetto posticcio e scene “fuori dalla realtà” (vedi, ad esempio, il momento in cui i tre ragazzini fanno il bagno ritrovandosi a nuotare nell’oceano insieme alla loro tata), a cui si fatica molto ad abituarsi non fanno altro che trasmettere allo spettatore nostalgico della precedente pellicola uno spiacevole senso di spaesamento. Se, poi, a tutto ciò aggiungiamo uno script in cui si tende a vivere di rendita grazie al precedente lavoro, ripetendo battute di successo in modo del tutto pretestuoso e ingiustificato, la povertà di idee e la debolezza dell’intero progetto finiscono inevitabilmente per essere smascherate. Volendo liquidare con un’unica frase il presente lavoro, dunque, si potrebbe tranquillamente affermare che questo Il ritorno di Mary Poppins è fondamentalmente un’opera a cui manca l’anima, con rapporti interpersonali solo lievemente abbozzati (la stessa Mary Poppins, di fatto, sembra non creare alcun legame profondo con i tre bambini, come la stessa scena finale – in cui lei va via quasi senza batter ciglio e senza che gli stessi bimbi sentano la sua mancanza – sta a confermare) e con una protagonista totalmente fuori parte ed eccessivamente preoccupata di “imitare” a dovere la sua predecessora Julie Andrews.
Un vero e proprio scivolone, dunque, questo preso da Rob Marshall, il quale, dal canto suo, ce l’ha messa indubbiamente tutta per essere all’altezza della situazione, tentando di salvarsi in corner con “aiutanti” del calibro di Meryl Streep e Angela Lansbury e stando, contemporaneamente, al passo con i tempi (a tal proposito, non può sfuggire il velato discorso sull’omosessualità, nel momento in cui Michael Banks – impersonato, tra l’altro, dallo stesso Ben Wishaw che ha da tempo fatto outing – sceglie per sé un palloncino rosa affermando di poter essere finalmente sé stesso). Malgrado l’impegno, però, quasi per nulla si è riusciti a toccare il cuore persino degli spettatori più affezionati e ben disposti, fatta eccezione per la tanto attesa comparsata di Dick Van Dyke – qui nel ruolo del signor Dawes Junior – in uno dei momenti maggiormente d’impatto dell’intero lungometraggio.

Marina Pavido

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