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Il ragazzo invisibile

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VOTO: 7

Da un grande potere…

Filmare l’invisibile pare essere la nuova ossessione del cinema di Gabriele Salvatores. É una svolta che ha i contorni rarefatti dell’irreale, dell’incredibile, del fantastico quella che il regista milanese, premio Oscar con Mediterraneo, intraprende nel suo ultimo film, Il ragazzo invisibile. In una Trieste più che mai concreta e autentica il regista mette in scena la storia di Michele, tredicenne come tanti, vessato dai bulli e segretamente innamorato di una compagna di classe, di colpo ritrovatosi in possesso di un potere incredibile, la capacità di scomparire (più o meno) a piacimento, e di un passato oscuro ed emozionante tutto da scoprire. Dopo un’incursione nell’universo di genere con Educazione Siberiana, senza allontanarsi da dinamiche proprie del suo (e del nostro) cinema, senza fuggire verso mondi alternativi ed evocativi, esotici e lontani, il regista cala un intero immaginario, quello del fantasy, quello delle storie dei supereroi d’oltreoceano, nella nostra realtà, in un mondo che ha la quotidiana concretezza di casa nostra, trasfigurandolo nei toni fumettistici di una vicenda mai così irreale. Ecco che l’invisibile non diviene sinonimo, allora, di impossibile; non è un filmare l’infilmabile l’intento di Salvatores, ma piuttosto quello, non meno ambizioso, di trapiantare un universo tematico ed espressivo con cui tutti (almeno gli under 40), nel bene e nel male, siamo cresciuti, in una realtà, quella del cinema italiano, cui si è poco avvezzi ad avere a che fare col registro del fantastico, di ciò che non trova riscontro immediato nella realtà, dell’invisibile, appunto. In un’operazione di questo tipo, dove il disastro è sempre dietro l’angolo, dove il rischio di perdersi in una ridicola scimmiottatura dei prodotti hollywoodiani e, di conseguenza, in un deprecabile provincialismo estetico-espressivo è lo spauracchio più diffuso per qualsiasi cineasta (e produttore), Il ragazzo invisibile ha il grande merito di contrastare questo (giustificato?) immobilismo con un risultato più che sorprendente, interessante, coinvolgente. Strizzando l’occhio alla lezione di Spielberg e compagni, palesandola in un mare di divertite citazioni che vanno dai Gremlins di Dante ai Goonies di Richard Donner, senza però mai perdere il tocco “europeo” della sua specifica vena autoriale, il regista orchestra un gioco di ragazzini per nulla banale, intenso al punto giusto; entrando nell’immaginario tutto americano dei supereroi in una storia che ha echi fortissimi di Spider-Man e X-Men, pone la macchina da presa all’altezza dei suoi piccoli protagonisti disegnando un mondo lontano dall’essere una semplice, sterile imitazione di quei modelli in chiave nostrana.
Continuando quel ritratto sfaccettato dell’adolescenza cominciato ormai un decennio fa, Salvatores dà vita a un’avventura simbolica sulla crescita, sul senso di non appartenenza, in un’età in cui il desiderio di essere invisibili si scontra col desiderio di essere visti, un drammatico e insieme favoloso percorso di (tras)formazione costantemente in bilico tra i sogni dell’infanzia e un mondo degli adulti non sempre così limpido. Certo, siamo lontani dallo sguardo infantile, sofferto e così empatico del piccolo Michele (un altro) di Io non ho paura, che dipingeva, con un’impronta più che mai soggettiva, un Sud evocativo, crudele e spietato; ma se la restituzione del mondo de Il ragazzo invisibile pare tanto semplicistica, abbozzata, meno complessa a confronto, è proprio perché non si tratta del nostro mondo o, perlomeno, non del tutto. L’adolescenza di Salvatores ha qui i tratti marcati di un fumetto, le tinte forti di una vignetta, il senso evocativo, netto ed esemplare che solo le grandi storie popolari sanno regalare.
Con il suo stile camaleontico, una tecnica ragguardevole anche nel dosare e nel gestire effetti speciali mai banali e sempre funzionali a una storia in grado di coinvolgere grandi e piccoli, Salvatores confeziona, giusto in tempo per Natale, un godibilissimo film per famiglie davvero unico nel suo (non) genere, dosando a un’operazione tipicamente americana (tra cui la trovata “transmediale” di accompagnare all’uscita del film un fumetto e un romanzo) un intento più profondo e sentito, ultimo tassello di una poetica scostante ma che non rinuncia mai, nel bene e nel male, a osare e sorprendere.

Mattia Caruso

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