Letterato o pizzaiolo?
Un’operazione cinematografica piuttosto ardita, quella operata ne Il mistero Henri Pick. Contaminare cioè la commedia con il giallo impuro, sorta di “whodunit” – evidentemente tornato di moda, vedere anche la coeva uscita di Cena con delitto – Knives Out di Rian Johnson – privo di omicidio o spargimento di sangue ma comunque capace di mantenere alta la soglia di attenzione nello spettatore.
Nella remota campagna bretone esiste – nella finzione del film ed è un’idea molto suggestiva da cui far partire il complesso meccanismo narrativo – una biblioteca di manoscritti non pubblicati. Ci si può, ovviamente, trovare di tutto. Dal saggio gastronomico al romanzo biografico-esistenziale. La giovane Daphné, in visita con il fidanzato al piccolo paese dove abita il padre nonché editor per una importante casa editrice, appresa l’esistenza di questa attività non resiste alla curiosità di visitarla. La sua attenzione viene attirata da un misterioso volume dalla copertina rossa. Il resto è leggenda. Un romanzo di straordinaria bellezza ispirato alla vita sentimentale di un poeta russo che risulta vergato da tale Henri Pick, pizzaiolo del paese nel frattempo defunto. Del quale sia la moglie che la figlia non rammentano alcuna passione per la lettura, né tantomeno per la scrittura. Il libro viene pubblicato, diventando immediatamente il caso letterario del decennio. Ma il famoso critico d’arte Jean-Michel Rouche (il grande, sornione, Fabrice Luchini) non crede minimamente all’identità dell’autore ed inizia un’indagine per proprio conto.
Manteniamo il segreto sul resto della trama e l’epilogo più o meno a sorpresa, ma togliamo oggi dubbio sull’effettiva qualità del film: Il mistero Henri Pick – film di chiusura della ventinovesima edizione del Noir in Festival – è un’opera godibile. Ben diretto e soprattutto adeguatamente scritto da Rémi Bezançon – con Vanessa Portal a supportarlo in sede di sceneggiatura – il lungometraggio affida intelligentemente la propria riuscita all’intrigo enunciato dal plot e alla recitazione sopraffina, sorta di garanzia per prodotti transalpini di questo tipo. Basta? La risposta è affermativa, nel senso che l’insieme di queste componenti garantisce un livello di totale fruibilità del prodotto cinematografico. Rimane però più di un dubbio su cosa Il mistero di Henri Pick sarebbe potuto diventare se Bezançon avesse avuto maggiore coraggio nello sviluppo in profondità della trama. Una satira affilata sulle granitiche convinzioni della borghesia intellettuale, ad esempio. Oppure un saggio non pedante sui casi creati appositamente dai media e sull’incapacità di distinguere tra Arte e simulacro della stessa da parte di tutti, senza troppe differenze sociali. Peccato allora che Il mistero Henri Pick rimanga a galleggiare su una brillante superficie, nell’ambito delle opere permeate di buona professionalità nelle varie componenti senza però spiccare il volo verso i lidi del cosiddetto film di culto, come le premesse avrebbero lasciato supporre. Un lungometraggio che rappresenta, per molti versi, la conferma di una tendenza di certo cinema francese ad adagiarsi sugli allori della “bella confezione” nella certezza che possa essere sufficiente a realizzare un buon prodotto. Piccolo errore di valutazione, dato che tra la godibilità a cui si faceva poc’anzi cenno e l’effettiva riuscita a trecentosessanta gradi di un’opera uno scarto talvolta minimo ma rilevante sussiste eccome.
Non rimane allora, nel caso de Il mistero Henri Pick, che abbandonarsi al piacere primario della visione, accantonando ogni grado di aspettativa differente che viene a formarsi nel corso della durata dello stesso. Del resto un film finito quello è e quello resta. Ed i se ed i ma servono solo ad insaporire infinite discussioni a posteriori che opere del genere possono provocare. Un altro pregio che comunque va loro riconosciuto senza tema di smentita.
Daniele De Angelis