In mare aperto
Correva l’anno 1968 quando un navigatore inglese per hobby, di estrazione borghese e padre di famiglia, decise di intraprendere la sfida delle sfide: la circumnavigazione dell’intero globo. Una vera e propria competizione verso se stessi e il mare, con in palio un forte premio in denaro e, per lui, la possibilità di far decollare la propria attività lavorativa, imperniata sulla fabbricazione di strumenti nautici. Donald Crowhurst era il suo nome.
Al regista britannico James Marsh piace mettere in scena esseri umani impegnati a confrontarsi con eventi straordinari, a prescindere dal fatto che la forma di espressione scelta sia documentaristica oppure di finzione. Anche perché, affidandosi quasi sempre a storie realmente accadute, le due dimensioni finiscono col sovrapporsi fino quasi a confondere i confini tra una categoria e l’altra. Pareva infatti avere elementi di fiction lo stupefacente Man on Wire (2008), documentario incentrato sulle mirabolanti imprese del funambolo Philippe Petit – lo stesso personaggio immortalato da Robert Zemeckis nel fondamentale The Walk (2015) – sospeso perennemente nel vuoto; oppure, anche se in una cornice in tutta evidenza mainstream, ricostruire ne La teoria del tutto (2014) la favolosa esistenza del leggendario fisico Stephen Hawking – da poco scomparso all’età di settantasei anni quando, colpito da una grave malattia in età giovanile, i medici gli avevano dato pochissimo tempo di vita – uomo capace di sfidare persino la logica affermandosi a dispetto di qualsiasi avversità. Tuttavia, nel caso de Il mistero di Donald C. (in originale The Mercy, cioè La Grazia. Chi vedrà il film ne comprenderà il senso ultimo…), per Marsh risulta del tutto indifferente l’esito finale della gara intrapresa: quello che conta è il fattore umano, l’esigenza insita nell’uomo di misurarsi con se stesso e i propri limiti. Ed è questo a spiegare perché Donald Crowhurst (impersonato dal solito, impeccabile, Colin Firth) abbia rinunciato ad una famiglia amatissima e contratto debiti in modalità capestro al solo scopo di mettersi in mare alla ricerca di quel (grande) tassello mancante alla propria realizzazione umana. Ben consapevole dei rischi che gli si presentarono di fronte.
Non sempre, ne Il mistero di Donald C., la sceneggiatura – opera di Scott Z. Burns, sceneggiatore prediletto da Steven Soderbergh – riesce a modulare con la giusta gradualità la vastissima gamma di stati d’animo che attraversa il protagonista nella solitudine vissuta durante la navigazione; e forse la regia di James Marsh trascura (quanto volutamente?) di fare della maestosità degli oceani un degno “sparring-partner” dei tormenti esistenziali di Donald Crowhurst. Si tratta però di opinabili dettagli, a corollario di un’opera che acquista, man mano che si evolve, uno spessore quasi filosofico. All’interno del quale un novello Ulisse supererà le personali Colonne d’Ercole divenendo simbolo di ogni ambiguità appartenente al genere umano: eroe o imbroglione? Devoto family man oppure egoistico e spregiudicato approfittatore degli eventi? Giudizio ovviamente sospeso, che il senso ultimo del film si tiene giustamente lontano dall’emettere. La cosa certa è che, racchiudendo in se stessa l’essenza imperfetta dell’essere umano, la vicenda personale di Donald C. riesce comunque a far scattare l’empatia nei confronti dello spettatore comune. Anche per merito di una riuscita costruzione a flashback in grado di condurre la platea ad una tacita forma di solidarietà verso una persona in quotidiano viaggio verso un destino segnato.
Così Il mistero di Donald C. risulta alla fine un lungometraggio compiuto a maggior ragione nella sua lettura contemporanea, dove i ritmi di vita sono sempre più fuori controllo poiché dettati – nonché pesantemente condizionati – da fattori esterni e incontrollabili; facendo in modo che il senso di inadeguatezza nel mantenere il passo si faccia sempre più stringente. Fino quasi a soffocare il singolo individuo. Allora non resta che provare ad essere toccati da quella, mentale e/o trascendente, forma di Grazia a cui fa riferimento il titolo originale. In modo tale che il Mistero a cui accenna la titolazione italiana, qualunque esso possa essere, sia destinato a rimanere tale all’infinito.
Daniele De Angelis