Le rose del male
Esordio nel film di fiction per l’egiziano Ahmed Fawzi Saleh, dopo il documentario Living Skin sulla vita nel distretto delle concerie del Cairo. Poisonous Roses, inserito nel Concorso Lungometraggi Finestre sul Mondo del 28° Festival Cinema Africano, d’Asia e America Latina, torna su quei luoghi e racconta la storia di due fratelli che ci vivono e lavorano. Quando Saqr, il fratello minore, si innamora di una ragazza e cerca di emigrare con lei in Italia, per fuggire da quelle condizioni di vita precarie, la sorella maggiore Taheya si indispettisce e cerca di far di tutto per boicottare quel progetto. Potrebbe sembrare un rapporto morboso quello che lega i due fratelli, nell’ossessione della gelosia di lei, un rapporto dai contorni incestuosi, suggerito da una battuta tra i due sull’impossibilità di un loro matrimonio. Ma il film tratta la situazione con molta naturalezza. Non è importante la natura di quel legame affettivo, quanto capire che esso dipende in realtà dalla coesione imposta dalla vita in quel luogo, il quartiere malsano delle concerie, che rappresenta il primo protagonista del film. Un tugurio attorno a una cloaca che esercita una forza centripeda con i suoi abitanti, che li trascina indietro quando cercano di fuggirvi. E anche un’attrazione per il regista che ci torna ed è capace di coglierne gli aspetti poetici.
Poisonous Roses comincia con una visione dall’alto del rigagnolo attorno cui avviene la vita dei personaggi. È un canale di scolo delle acque reflue, gli scarti delle attività delle concerie. In questa prima inquadratura il canale è irrorato dai getti di scarico, fino a quando non vi passa una carrozza. Un’inquadratura programmatica dell’eleganza formale con cui il regista, paradossalmente, si infila, raccontandolo, in questo agglomerato urbano malsano, che già ha studiato per il suo documentario e che ha nuovamente osservato per due anni in vista del film. Sembra l’inizio di un musical hollywoodiano con elementi di coreografia, gli scarichi, in luogo dei scintillanti decor di quel genere cinematografico. I colori della cloaca sono tanti e diversi, ogni scarico delle acque di scarto delle concerie, alcuni con schiuma, vi apporta una tonalità nuova. E poi il regista coglie ed esalta i riflessi sull’acqua delle luci la sera. L’approccio di Ahmed Fawzi Saleh è quello di un’estetica del degrado, nel cogliere colori e sonorità (il film non ha una colonna sonora musicale) di quel quartiere malfamato, brulicante di gente operosa, impegnata in mille attività artigianali e commerciali, concerie, sartorie. La cui vita si snoda attorno a quel corso d’acqua putrida, sulle cui rive si passa a volte su delle assi di legno precarie, tra rifiuti e cani randagi. Il regista sa cogliere la vitalità e il dinamismo delle persone che vi abitano, cercando di dimenticare le proprie condizioni precarie. Per questo il tentativo di fuga di Saqr è visto come un tradimento e contro di questo si mobilitano anche forze sovrannaturali, incarnate dal mago che fornisce una pozione magica a Taheya.
Sono poche le fughe nel film da quartiere delle concerie. Per il luna park, la spiaggia, il cimitero. Ahmed Fawzi Saleh lo esplora in tutti i suoi anfratti, si infila nei suoi angusti vicoletti con la steadycam, seguendo Taheya che li percorre avanti e indietro, fungendo così da guida. I colori del film sono soprattutto quelli dei suoi hijab, a ogni scena ne ha uno di colore diverso. In Egitto il velo islamico non è imposto ma è portato, in una società eterogenea e dai forti divari sociali, prevalentemente dalle donne dei ceti più umili. Taheya lo usa solo per uscire, ma lo toglie in casa. Lo strato sociale cui appartiene, è rimasto fortemente patriarcale: “Se disubbidisci al marito è come se disubbidissi a Dio“, si dice in una battuta. La madre regala a Taheya , per consolarla, una camicetta molto colorata, dai disegni floreali. Così come i colori sono anche quelli dei petali delle rose, che la ragazza va a recuperare al cimitero. Sono i colori della gente comune di quel distretto, che pulsano e hanno il sopravvento sul grigiore dominante.
Giampiero Raganelli