Eye for eye, tooth for tooth
Occhio per occhio, dente per dente. Con la cadenza di un revenge movie essenziale, scarnificato, crepuscolare, quasi stilizzato nella rappresentazione della violenza, esce finalmente nelle sale Il fuoco della vendetta – Out of the Furnace. Come regista Scott Cooper ci aveva già folgorato all’esordio, grazie ai ritmi country di Crazy Heart e a un cast anche in quell’occasione notevole: i personaggi di Jeff Bridges, Maggie Gyllenhaal e Colin Farrell ci sono rimasti scolpiti nel cuore. Proprio grazie a Jeff Bridges arrivò nel 2010 uno dei due premi Oscar, coi quali andrebbero ricordati altri riconoscimenti importanti. Da un cast che abbiamo definito notevole si è passati ora a uno decisamente stellare: vi compaiono Woody Harrelson, Christian Bale, Casey Affleck, Zoe Saldana, Sam Shepard, Willem Dafoe e Forest Whitaker, tanto per fare una rapida carrellata. E anche stavolta il cinema ruvido, aspro e sanguigno di Scott Cooper non è passato certo inosservato: basti pensare al Premio della Giuria per la miglior opera prima e seconda, tributatogli nel 2013 al Festival Internazionale del Film di Roma.
Invece di mettere le mani avanti, espressione di per sé abusata, abbiamo messo avanti i premi. E anche questa potrebbe risultare una scelta troppo comoda. Ma la verità è che Out of the Furnace, premi o non premi, possiede una tale intensità di racconto e di messa in scena da soggiogare lo sguardo, sin dalle prime inquadrature. La sequenza iniziale al drive in è da sola una grande lezione di cinema, che partendo da elementi minimali riesce a produrre un crescendo di tensione impressionante; e tutto questo è appena il prologo, incentrato sulla brutalità cieca, autocompiaciuta e apparentemente senza nemici naturali del personaggio di Woody Harrelson, Harlan DeGroat, un malvivente locale abituato a dettar legge in quelle piccole comunità della provincia americana, dove simili spacconate hanno un’eco prolungata e duratura. Abbiamo già scovato l’antagonista. Ciò che segue è una quanto mai amara epopea famigliare, che nel complicato rapporto tra due fratelli dall’indole diversissima, ma assai legati tra loro, allude con forza al disagio di un’America proletaria ferita in mille modi: i debiti, la difficoltà a conservare il posto di lavoro, le istituzioni che si fanno vive solo per reclamare qualcosa. In questa cornice tendente al grigio i due fratelli, Russell (Christian Bale) e Rodney (Casey Affleck), tentano di sostenersi a vicenda, ma ad attenderli ci sono prove sempre più dure. La prigione. Selvaggi combattimenti clandestini, affrontati per guadagnare pochi dollari e al contempo per esorcizzare i fantasmi della guerra. L’altro spettro della fabbrica ormai sul punto di chiudere, quella stessa fabbrica che per Russell (e per suo padre) aveva costituito un’ancora di salvezza, mentre per Rodney rappresentava una specie di maledizione, assolutamente da evitare. Parte dell’Inferno che abbiamo provato sommariamente a descrivere toccherà all’uno, parte all’altro fratello. Queste, in ogni caso, sono le premesse della piccola escalation drammatica, che porterà poi verso una faida feroce…
Costruito su dialoghi secchi e taglienti, Out of the Furnace è un film da vedere possibilmente in lingua originale, così da apprezzare in toto la bravura espressa non solo da Christian Bale e Casey Affleck, davvero impressionanti nell’interagire fisicamente tra loro e con la realtà circostante, ma anche da parte di altri interpreti indubbiamente prestigiosi. Oltre al già citato Woody Harrelson, velenoso quanto un serpente a sonagli, una nota di merito se la sono guadagnata senz’altro l’umanissimo piedipiatti Forest Whitaker e Willem Dafoe, capace come sempre di dare ai piccoli ruoli una coloritura unica. Lo spessore di questi personaggi e degli attori chiamati ad interpretarli confluisce quindi in una cartolina sbiadita, malinconica, dell’America boccheggiante di oggi. Il cuore profondo degli Stati Uniti continua a essere, per il bravo Scott Cooper, palcoscenico ideale di sentimenti tormentati e vicende dal carattere velatamente antieroico, come questa catena di vendette girata con toni plumbei e con l’accento spostato sulle motivazioni interiori, più che sull’enfatizzazione dell’atto conclusivo. Non tendere verso una spettacolarizzazione forzata è scelta che però non va confusa con sciatteria, o con un taglio in assoluto minimalista, che sarebbe parso altrettanto fuori luogo. Perché al momento opportuno i fucili sanno come si canta. E una colonna sonora realmente da brividi si presenta ad aggiungere altre vibrazioni nell’aria.
Stefano Coccia