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Il Boemo

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VOTO: 7,5

Passaggio del testimone tra Boemi

Quest’anno il Trieste Film Festival si è concesso il lusso di una doppia inaugurazione. La prima sabato 21 gennaio, con la proiezione dell’attesissimo L’uomo più felice del mondo di Teona Strugar Mitevska, alla presenza di Elma Tataragić co-sceneggiatrice del film. La seconda, invece, ha avuto luogo martedì 24 gennaio al Politeama Rossetti, ed è stata se possibile ancora più scoppiettante. Anche perché ha acceso i riflettori su due figure, diversissime tra loro, che condividono però lo stesso soprannome: “il Boemo”!
Aria da “Praga Magica”, si potrebbe anche dire. Il primo dei personaggi in questione risulta maggiormente noto alle cronache sportive, senza ombra di dubbio, ma con una personalità e un carisma che trascendono l’ambito calcistico nudo e crudo, proiettandolo verso altri lidi dell’immaginario contemporaneo. Stiamo parlando di Zdeněk Zeman, allenatore di calcio ceco con cittadinanza italiana, che per l’appunto viene definito spesso dalla stampa sportiva “il Boemo”; e che qui a Trieste ha ricevuto l’Eastern Star Award (il secondo attribuito a una personalità non cinematografica, dopo quello del 2019 a Michail Gorbačëv) proprio per la capacità di valicare il ruolo assegnatogli, aggiungendo alla competenza e alle innovazioni nel gioco una serie di critiche ben assestate al proprio ambiente e interessi socio-culturali non così comuni tra i propri colleghi.

Sul palco Zeman, pur provato da un’età non più giovanissima, ha confermato la sua classe e la sua proverbiale, sottile ironia (dote comune del resto a molti intellettuali praghesi) con alcune folgoranti battute. E altrettanto istrionico è sembrato poi colui che ha preso il suo posto sul palcoscenico, ovvero il connazionale Petr Václav: regista di un film che si intitola, neanche a dirlo, Il Boemo. Ma non è quest’ultima una biografia cinematografica del celebre allenatore. Bensì il ritratto di un altro grande personaggio del passato, il compositore Josef Mysliveček, che muovendosi dalla natia Praga a Venezia (dove poté approcciare l’opera lirica in modo ancora più consapevole, grazie agli insegnamenti di un Maestro come Giovanni Battista Pescetti) ottenne i maggiori successi artistici proprio in Italia, venendo osannato nei più prestigiosi teatri della penisola. Fino al punto di essere conosciuto come “Il divino Boemo”, un po’ per i tanti apprezzamenti importanti avuti e un po’ per la difficoltà degli italiani a pronunciarne il nome per intero.

Oggigiorno si sente dileggiare spesso quei film che durano oltre due ore. Noia? Prolissità? Oddio, dipende. Si entra qui, probabilmente, in discorsi di natura oltremodo soggettiva. Fatto sta che l’estesa, articolata narrazione di tale lungometraggio a chi scrive è parsa anche appassionata e vibrante. Nonché divertita. Postosi in modo spigliato e incline alla burla persino sul palco, al momento di presentare il suo lavoro cinematografico al pubblico, Petr Václav ha saputo senz’altro infondere simili propensioni nell’impalcatura diegetica di un “biopic“, che ondeggia sinuosamente tra la classicità di fondo della messa in scena e certe stranianti, irriverenti soluzioni narrative. Vedi ad esempio il voluto abbassamento del “tono alto” nel dialogo su feci e amenità varie tra il giovane Re di Napoli, dipinto come “scostumato” già dai cronisti dell’epoca, e lo stesso Mysliveček.
Quanto al protagonista, interpretato con un certo stile dal ceco Vojtěch Dyk, desta impressione e crea interesse vederlo all’inizio del film anziano, malato, quasi un uomo senza volto di “melgibsoniana” memoria (per via di brutti mali contratti in gioventù e curati poi male da medici ignoranti), così da accedere poi in flashback agli anni della formazione, ai suoi primi successi (musicali ma anche… sentimentali) e alle inevitabili diatribe o alleanze con altri artisti.

Film dai molti contrasti, a tratti piacevolmente in balia della musica, in altri frangenti così carnale e libidinoso, Il Boemo oscilla di continuo tra modelli che potrebbero essere tanto l’irraggiungibile Amadeus di Miloš Forman quanto Il Casanova di Federico Fellini, visto l’approccio alla Venezia settecentesca. E proprio in merito al pressoché inevitabile confronto con il connazionale Forman, può suonare buffo che uno dei momenti più ironici, divertenti e paradossali del film sia per l’appunto l’incontro dell’ormai maturo e professionale Mysliveček con Mozart bambino, ossia un genio assoluto dal talento cristallino e dalle fisime non meno appariscenti.
In sostanza Petr Václav dimostra qui e altrove di volersi attenere piuttosto fedelmente alle testimonianze storiche, cercando però nel rielaborarle un tono tutto suo che spesso fa la differenza. Ben spalleggiato, in questo, dall’intero cast e soprattutto dalla sua componente italiana, assemblata pensando soprattutto agli ambienti veneto e napoletano più volte attraversati dalla narrazione. Con note di merito per i vari Diego Pagotto, Barbara Ronchi (una Gabrielli davvero strepitosa), Elena Radonicich e Lino Musella.

Stefano Coccia

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