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Gigi la legge

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VOTO: 9

Uno sguardo vigile

Dopo essersi fatto apprezzare nuovamente al Locarno Film Festival, dove già agli esordi L’estate di Giacomo aveva ricevuto una calorosa accoglienza, il cinema di Alessandro Comodin è tornato a respirare aria di casa. Gigi la legge ha fatto ritorno in Friuli Venezia Giulia. E presentato fuori concorso al Trieste Film Festival 2023, per la precisione al Teatro Miela, è riuscito immancabilmente a sorprendere, commuovere, emozionare il pubblico della sua regione.
Lo sbigottimento è sensazione condivisa, diffusa, sin dalla prima scena del film: dura infatti diversi minuti il piano sequenza che vede un uomo, il protagonista, impegnato nell’oscurità della sera e tra la fitta vegetazione del proprio giardino a discutere animatamente con un vicino di casa. Più che altro un monologo, mascherato da dialogo, considerando che nascosto dal fogliame l’altro è relegato a un ipotetico fuori campo. Strumento espressivo, il fuori campo, col quale al pari dei ripetuti camera car o di qualche solo apparentemente banale campo e fuori campo il regista è in grado di alterare, con arguzia e ironia, le percezioni dello spettatore. Intanto però nel corso dell’interminabile sequenza cominciano a volare parole grosse. E non poca è la sorpresa del pubblico quando si scopre che il protagonista, Pier Luigi detto in paese Gigi, nella vita lavora per la Polizia locale!

Del resto l’immaginario relativo ai vigili urbani, rimasto per molti ancorato al pur simpatico, televisivo vigile urbano Urbano Tommasi interpretato macchiettisticamente all’epoca da Lino Banfi, meritava di essere aggiornato con qualcosa di assai diverso, pur rimanendo nell’ottica del “vigile buono” e capace di parlare alla gente. Qualcosa ad esempio che apparisse più sanguigno, genuino, reale, facendo respirare magari al contempo l’aria della provincia italiana. Perché se le così iconiche “strade di San Francisco” hanno un loro fascino, quelle friulane (e così ci pare quasi di citare il tormentone di Ruggero de i Timidi “cos’ha New York che Udine non ha”) devono essere per forza da meno? E così scopriamo che quel “quid” in più, in grado di far scattare la scintilla, Alessandro Comodin ce l’aveva già a portata di mano, addirittura in famiglia: Pier Luigi Mecchia è infatti suo zio. E a San Michele al Tagliamento è stato veramente per anni un vigile urbano, anche benvoluto dai paesani, prima che di recente fosse costretto ad abbandonare quella divisa, che, come è stato sottolineato ironicamente (ma anche affettuosamente) in sala, il nipote gli ha permesso di indossare di nuovo, almeno sul grande schermo.

Ecco, come in passato, nel cinema di Comodin il cortocircuito tra realtà e finzione è sempre molto fecondo. Diventa perciò quasi sterile parlare di lungometraggio di finzione, oppure di documentario, quando si segue Gigi in pattuglia. Del resto ci è bastato sentir parlare l’adorabile Pier Luigi Mecchia al Miela per renderci conto che la sua filosofia di vita è quella lì, che con quel timbro di voce inconfondibile non l’esprimerebbe poi così diversamente nel corso di una chiacchierata al bar, da come l’ha lasciata trasparire di fronte alla macchina da presa. Ma affinché questo avvenisse occorreva anche una piena consapevolezza del linguaggio cinematografico. E lo zio cineasta, che in questo è un piccolo Maestro, si è limitato a costruirgli intorno situazioni che tirassero fuori, con la massima naturalezza possibile, quel potenziale. Giocando poi con la macchina-cinema in maniera a volte estrema, provocatoria (la durata delle scene, le pause, i dialoghi che si avvitano su se stessi rendono palpale il sonnacchioso tran tran quotidiano della provincia), sempre però intelligente come pure profondamente rispettosa ed umana.
Questa dimestichezza si trasferisce indi altrettanto agevolmente alle possibili intersezioni di genere: complice la presenza scenica del protagonista, Gigi la legge è un film che conserva la sua identità pur accarezzando la commedia rosa, il road movie, il giallo alla Montalbano (vedi la nota perturbante del suicidio di una giovane sui binari, con annesso “MacGuffin” rappresentato dall’atteggiamento un po’ ambiguo dell’unico testimone, subito colto da Gigi e trasformato in personale ossessione). Al punto che nell’ulteriore azzardo stilistico incarnato dall’ennesima sequenza girata nella semi-oscurità, col sospettato che pare aggirarsi furtivo intorno alla casa del vigile, si colgono persino sfumature lynchane.

Se non mancano nemmeno elementi di ispirazione vagamente noir, per quanto inclini al grottesco, vi è da dire che è comunque una comicità situazionista, popolaresca nei modi e alla bisogna un po’ astratta, a prevalere negli incontri del protagonista con gli altri personaggi. Compresi i duetti alla ricetrasmittente con la nuova collega, Paola (deliziosamente in parte un’altra attrice non professionista, Ester Vergolini), da lui precocemente idealizzata fino alla comunque soave epifania della parte finale del film. Un epilogo, in ogni caso, che con la parentesi del TSO a una ragazza del posto e dei ricordi che riaffiorano in Gigi, conferisce di nuovo profondità e intensità al racconto.

Stefano Coccia

 

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