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I Am Not Your Negro

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VOTO: 7

Con ogni video necessario

Il regista haitiano Raoul Peck racconta le lotte contro la segregazione razziale e per la parità dei diritti di tre attivisti afroamericani, Malcom X, Martin Luther King Jr. e Medgar Evers, tutti e tre finiti assassinati. E lo fa con le parole dello scrittore James Baldwin, attraverso il testo del suo ultimo progetto letterario rimasto incompiuto, “Remember This House”. E con l’ausilio di una gran quantità di materiale di repertorio. La fonte letteraria è dichiarata nell’uso di didascalie che riproducono i caratteri tipici della vecchia macchina da scrivere, scritte che si formano sullo schermo, lettera per lettera, proprio come se qualcuno, uno scrittore, le stesse battendo. Scritte che si tramutano in parola, nella voce off recitata dai toni caldi e soavi di un altro afroamericano, Samuel L. Jackson. Il regista, che proviene da una nazione che è stata tra le prime ad affrancarsi dal colonialismo e ad abolire la schiavitù, si affida al punto di vista di Baldwin, completando idealmente, attraverso le immagini, il suo manoscritto e dando così voce alla sua testimonianza e coscienza critica.
Tre figure chiave della storia americana, messe a morte nel corso di soli cinque anni, Medgar Evers, il 12 giugno 1963, Malcolm X, il 21 febbraio 1965, Martin Luther King Jr., il 4 aprile 1968. James Baldwin li ricorda e li descrive, rievoca la sua conoscenza e amicizia nei loro confronti. I Am Not Your Negro racconta in definitiva un quarto protagonista, lo scrittore stesso. Se conosciamo, anche attraverso il cinema di Spike Lee, i dissidi tra il pacifista e nonviolento Luther King e Malcolm X, fautore di una linea bellicosa, meno noto il profilo di Evers, che ha preceduto gli altri due nella morte. Quest’ultimo portava avanti soprattutto azioni di boicottaggio. Una triade di figure carismatiche che subito il film accosta in uno schermo tripartito alla Napoleon.
Raoul Peck compie un viaggio, accompagnato da musica blues, nell’America profonda delle distese di campi e dei grandi grattacieli che si stagliano in un cielo al tramonto, un viaggio nella storia del paese, nel suo passato. Il regista ci conduce con la suggestiva immagine del raccordo di un treno contemporaneo con uno di filmati di repertorio. E fornisce un ritratto impietoso già nella vetrina con i pupazzetti di Hellraiser e dei supereroi Marvel accostati a quelli della Statua della Libertà, di Martin Luther King e George Bush (!). Le tensioni razziali appaiono come un tratto costitutivo, intrinseco dell’America. Un filo conduttore passa per le vicende degli anni Sessanta, per il pestaggio di Rodney King nel 1991 fino alle scene di guerriglia urbana che si susseguono ancora oggi. Peck, attraverso l’occhio e la penna di Baldwin, non fa sconti a nessuno, nemmeno a Robert Kennedy, di cui racconta il non proficuo incontro con la drammaturga e attivista Lorraine Hansberry. E di RFK viene sottolineata anche la benevolenza, quasi una concessione se si comporteranno bene, con cui dichiara che i neri, se continueranno a fare progressi, potrebbero arrivare dopo 40 anni a esprimere addirittura il Presidente. Cosa che in realtà – lo sappiamo a differenza di Baldwin che è morto prima di vederlo – è successa con Obama con una tempistica lievemente più lunga.
Il razzismo odioso emerge da ogni piega dell’America profonda, Peck lo mostra direttamente con il footage di questo film. Esibendo anche, tra i materiali – con estratti sempre in frasi scritte sullo schermo come con una macchina da scrivere – un rapporto dell’FBI su James Baldwin che veniva attenzionato per il suo pensiero antirazzista, nonché come presunto gay (“Si dice sia omosessuale e ne ha in effetti l’aspetto”). E compare anche il faccione di un giovane J. Edgar Hoover che dalla televisione rassicura il popolo americano della sicurezza garantita dalla polizia federale. Non si tratta comunque solo del razzismo esplicito dei politici del white power, fautori della segregazione, dei manifestanti bianchi, del Ku Klux Klan. Il razzismo è anche quello più sottile che si dissimula, quello insito nei filmati apparentemente neutri. La trasmissione televisiva, nel 1968, in cui l’intervistatore di Baldwin sostiene come un grande segno della raggiunta parità stia nel fatto che i “negri” potessero partecipare da figuranti agli spot pubblicitari. E poi i ruoli da caratteristi buffi in cui erano impiegati attori di colore, e i vari zii Tom del cinema. Il campionario mostrato da I Am Not Your Negro è solo una goccia nello stagno. Basta pensare ai cartoon dove i neri erano raffigurati con l’osso tra i capelli, o agli altri tanti esempi riportati dal film How to Get the Man’s Foot Outta Your Ass (2003) di Mario Van Peebles.
I Am Not Your Negro è un lavoro di grande ricchezza, di contenuti, di materiali, di ritratti. Dove Raoul Peck gioca anche un’ulteriore carta, quella di mescolare le immagini, dei montaggi analogici, degli accostamenti che producono senso. Il rogo nazista dei libri degenerati e la scena del primo King Kong dove il rito tribale è ovviamente compiuto da uomini di colore. Doris Day con vestitino a paillettes e bottiglia di champagne in mano, e le foto dei neri impiccati. Una discesa inesorabile nel baratro.

Giampiero Raganelli

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