Il bisbetico domato
Avere la fortuna di potere contare sull’apporto di un attore come Ben Kingsley nel ruolo del protagonista é qualcosa che può dare al film di turno e al suo autore una certa sicurezza, o quantomeno una scialuppa di salvataggio sulla quale salire quando le acque iniziano ad agitarsi e la nave, con tutto l’equipaggio al seguito, rischia di andare a picco. Ed è quanto accaduto alla nuova pellicola scritta e diretta da Brad Silberling dal titolo An Ordinary Man, presentata in concorso nella sezione Panorama Internazionale dell’ottava edizione del Bif&st, con l’attore inglese che sfoggia l’ennesima prova maiuscola della sua straordinaria carriera. Non siamo ai livelli delle performance da brividi di Gandhi o Schindler’s List, che restano e resteranno indimenticabili, ma quella offerta nella pellicola del regista americano è comunque meritevole di essere ricordata, in primis per la difficoltà di un personaggio dal profilo scivoloso e pieno di insidie, che l’interprete britannico ha saputo comunque gestire alla perfezione.
Kingsley si è calato nei panni scomodi di un criminale di guerra, che durante il conflitto nei Balcani si è macchiato di atroci delitti. Ora vive in clandestinità in una città non meglio identificata (si intuisce che ci troviamo comunque in una metropoli dell’ex Jugoslavia), costretto a cambiare continuamente rifugio. In uno di questi instaura un’insolita relazione con il suo unico collegamento con il mondo esterno, ossia una ventiseienne domestica di nome Tanja. A darle corpo e voce troviamo la promettente islandese Hera Hilmar, già vista nelle vesti di Varya nell’Anna Karenina di Joe Wright, la cui interpretazione riesce persino a tenere testa a quella del più esperto collega inglese, tanto da non essere passata inosservata agli occhi della giuria popolare della kermesse pugliese che le ha conferito il premio come migliore attrice.
Il loro contributo davanti la macchina da presa è stato, dunque, determinante per il destino del progetto e ai fini del nostro giudizio finale nei confronti del film. Senza di esso, probabilmente, An Ordinary Man avrebbe avuto molte meno speranze di raggiungere la soglia della sufficienza. L’alchimia che si viene a creare tra i due personaggi, che nasce dal più classico degli scontri destinato a diventare un incontro, dona al film quei motivi di interesse che lo script dello stesso Silberling non riesce sempre a offrire allo spettatore. Quest’ultimo, infatti, si trova a fare i conti con quella tipologia di operazione dove sono le dinamiche tra i personaggi, emotive prima ancora che fisiche, a rappresentare il vero baricentro. La drammaturgia, in effetti, è ridotta all’osso e la storia, così come il plot, si appoggia per gran parte del tempo alle suddette dinamiche. Ciò mette in evidenza due aspetti centrali: da una parte il venir meno dell’originalità, poiché An Ordinary Man porta sul grande schermo schemi e modus operandi narrativi e drammaturgici già ampiamente proposti e codificati in passato; dall’altra il cambiamento di rotta del regista statunitense che, accantonando momentaneamente la componente fantasy di molti suoi lavori precedenti (City of Angels, Casper o Lemony Snicket – Una serie di sfortunati eventi), ci ha finalmente mostrato l’altra faccia della medaglia del suo modo di fare e concepire la Settima Arte. E questo ci ha fatto un enorme piacere.
Qui Silberling, che mancava dal grande schermo dai tempi (ossia dal 2009) del poco riuscito film d’avventura Land of the Lost (nel frattempo non è stato a guardare, dedicandosi moltissimo al piccolo schermo firmando come regista e produttore serie, mini serie e Tv Movie: da The Defenders a Jane the Virgin, passando per Hail Mary e Down Dog), firma una regia meno eclettica e più contenuta, che non distrae mai lo spettatore dal duello verbale tra i due protagonisti. Scelta saggia.
Francesco Del Grosso