Trova la talpa
L’aprile scorso il Florence Korea Film Fest, in occasione della sua ventesima edizione, si regalava e ci regalava una personale dedicata a uno degli attori più importanti della scena sudcoreana e non solo, divenuto celebre al livello planetario grazie al successo senza precedenti della serie targata Netflix, Squid Game, dove vestiva i panni del concorrente oltre che protagonista Seong Gi-hun. Si tratta di Lee Jung-jae, interprete dalla carriera fondata su una professionalità rigorosa che lo ha portato a scegliere ruoli coraggiosi e anticonformisti, alcuni dei quali ammirati nella retrospettiva con la quale la kermesse toscana gli ha reso omaggio. Ma nei titoli scelti dalla direzione artistica mancava per forza di cose quello che è stato il suo debutto dietro la macchina da presa, ossia Hunt, presentato un mese dopo in anteprima mondiale tra le proiezioni di mezzanotte della 75esima edizione del Festival di Cannes. Uscita dai nostri radar sulla Croisette, la pellicola ci è poi fortunatamente rientrata grazie al passaggio al 32° Noir in Festival, laddove è stata selezionata tra i titoli in corsa per il prestigioso Black Panther, andato per la cronaca a Bowling Saturne della francese Patricia Mazuy.
Nella sua opera prima, scritta da Jo Seung-Hee, Lee Jung-jae ha deciso di sdoppiarsi, alternandosi sia davanti che dietro la cinepresa. Se come attore abbiamo avuto già diverse occasioni per certificarne le doti, con Hunt lo si è potuto vedere all’opera anche nelle vesti di regista, apprezzandone le qualità. Con quest’ultime, che sono il risultato delle tante e significative esperienze maturate sui set di connazionali dai quali ha rubato con gli occhi diversi trucchi del mestiere, Lee Jung-jae ha dato sostanza, efficacia e rafforzato la messa in quadro, sfoderando le molte scene di forte impatto visivo che vanno a comporre la timeline, a cominciare da quelle d’azione. Con queste l’autore ha dato una spinta ulteriore a una spy-story capace di tenere incollati alla poltrona gli spettatori di turno per le due ore e passa di visione, portandoci nell’occhio del ciclone di una feroce e sanguinosa contesa tra i servizi segreti delle due Coree, nel pieno delle tensioni degli anni Ottanta. Tensioni alle quali si vanno ad aggiungere anche quelle interne alle fazioni, con le faide intestine dettate dal fuoco amico, dalla presenza di talpe e di una serie di doppi giochi, tradimenti e giochi di potere che finiranno con il provocare delle crepe insanabili. Una reazione a catena che in Hunt prende il via dopo che un alto funzionario nordcoreano ha chiesto asilo politico, con il capo dell’unità estera della KCIA Park Pyong-ho e quello dell’unità interna Kim Jung-do che devono scoprire una spia nordcoreana, nota come Donglim, che lavora perfettamente mimetizzata nella loro agenzia. Quando la spia fa trapelare informazioni riservate, pericolose per la sicurezza nazionale, le due unità iniziano a lottare l’una contro l’altra, anche perché nel caso non riuscissero a trovare la talpa, l’accusa di tradimento potrebbe ricadere proprio su una delle due squadre. Pyong-ho e Jung-do lentamente scoprono la verità.
Il venire a galla della verità e la scoperta dell’identità della talpa sono le due strade che lo spettatore si troverà a percorrere per arrivare allo scacco matto, ma non prima di avere assistito alla tradizionale partita fatta di mosse e contromosse, depistaggi, sospetti e bluff ai quali le spy-story sono solite ricorrere per rendere la ragnatela narrativa e drammaturgica sempre più fitta. Una ragnatela che nel caso di Hunt è stata ben intrecciata prima di essere sbrogliata a pochi minuti dal finale con un paio di colpi di scena ben assestati. Il tutto solo dopo avere assistito a una successione ben architettata di capovolgimenti nelle posizioni dominati, che mescolano sapientemente le carte sino alle rivelazioni finali, quelle che chiudono nel sangue le ostilità. Merito di una scrittura e di una confezione che sfruttano al meglio i meccanismi e gli stilemi del genere di riferimento, facendo leva tanto sulla componente mistery quanto su quella più action. Alla prima spetta quella di tenere costantemente sul filo della tensione il fruitore, la seconda di intrattenerlo con accelerazioni di ritmo e conflitti a fuoco davvero di ottima fattura. Ma questo per il cinema sudcoreano è ormai normale amministrazione .
Francesco Del Grosso