Quanto dolore può trasparire da una pellicola?
Le guerre jugoslave sono state una serie di conflitti armati, inquadrabili tra una guerra civile e , che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, una decina di anni dopo la morte di , tra il 1991 e il 2001, causandone la dissoluzione.
L’ultima fase dei conflitti avvenne in Macedonia nel 2001 con la guerra civile che vide coinvolte la minoranza albanese e la maggioranza slava.
Proprio in quel periodo la regista macedone Teona Strugar Mitevska ambienta il suo How I Killed a Saint (2004). Alla regista è stata dedicata una retrospettiva al 37° Torino Film Festival, al quale la Mitevska ha partecipato anche in qualità di giurata.
Agli inizi parrebbe che il centro del film sia il concetto di identità. Sembra che si cerchi una risposta alle domanda su quale identità sia possibile nei paesi della ex-Jugoslavia. Kusturica, alfiere indiscusso di quella cinematografia, non ha ancora trovato una risposta, e così gli altri registi a quanto pare, tutti bloccati come sono dall’enorme trauma di quegli anni. Viene anche da chiedersi se sia possibile trovare una risposta. Eppure no, non è questo il centro del film. Non è di questo che la regista vuole parlarci.
Ciò a cui ci troviamo davanti è il diario intimistico durante gli anni di quella guerra e il dolore, personale e condiviso, che investì i macedoni, girato con un taglio asciutto, affilato, quasi giornalistico in alcuni momenti. La regista ci mostra questa storia con quello che è più uno spirito di lotta civile che di creazione artistica. La Mitevska adopera dunque il cinema come arma di lotta politica e sociale. Nel farlo mette al centro della pellicola una famiglia di Skopje, con la figlia Viola (Labina Mitevska) che torna a casa dopo gli anni dell’università negli Stati Uniti e ritrova la famiglia con il fratello Kokan (Milan Tocinovski), testa calda inferocita dalla presenza delle truppe NATO.
Tornando trova anche una società al collasso la cui confusione e ferocia sono documentate nel film con precisione. Nulla ci nasconde la regista in questa narrazione di una piccola storia travolta dalla Grande Storia; la quale non sa come reagire, difendersi e sopravvivere. Non può quindi che perdersi, rimanerne appunto travolta, senza possibilità di salvezza. Non c’è compiacimento negli intenti della Mitevska, nessun desiderio di salire in cattedra e mostrare dall’alto ai suoi connazionali lo sfacelo da essi stessi provocato, l’enorme dolore da essi stessi causato. Ciò che traspare è il senso di dovere morale, se non addirittura di obbligo che la regista avverte nel parlare di ciò che accadde nel suo paese in quei drammatici giorni e di come nessuno possa dirsene immune o innocente.
Ma, infine, quanto dolore può trasparire da una pellicola? Si può essere in grado di trasmettere il dolore di un popolo intero? Non sappiamo trovare una risposta, e forse nemmeno la Mitevska, ma ha il grande merito di averci provato, di essersi sobbarcata questa gravosa missione e di averla portata a termine al meglio delle sue possibilità.
Luca Bovio