Dal Mosaico d’Europa 2008, un nostro omaggio al Maestro ceco recentemente scomparso
“Il sense of humour di Hrabal e il suo modo così colorito di narrare una serie di episodi della vita di un ambizioso apprendista cameriere mi ha offerto molti momenti in cui girare è stato veramente piacevole. Tuttavia, non si sarebbe trattato di Hrabal se dietro una narrazione esteriormente così vivace non ci fosse anche un giudizio, un’opinione sull’indole ceca e su tutti i capovolgimenti della storia del paese. Tale opinione è anche l’idea centrale su cui si basa il film”.
Jiří Menzel
Nella cura dell’elemento scenografico, nell’attenzione per ogni singolo dettaglio, nello stile con cui vengono ricostruiti gli interni dei sontuosi ristoranti e alberghi che vedono crescere (o crollare) le fortune dell’apprendista cameriere Jan Díte, si avverte l’eco di Hrabal, della sua penna vivace e ispirata, da cui una abilità descrittiva inconfondibile nel costruire ponti tra i personaggi, gli ambienti, i ricordi, l’aneddotica e tutte le molteplici risonanze che vi si possono percepire.
Verrebbe voglia di riesumare un concetto forse abusato, quell’estetica biedermeier (in origine movimento artistico particolarmente attento agli elementi decorativi e ornamentali, sviluppatosi nella prima metà dell’ottocento presso la borghesia austro-tedesca), che diversi studiosi nel corso del tempo hanno messo in relazione con l’opera hrabaliana. Ma a sconsigliarci di procedere oltre è la sensazione di banalizzare, in tal modo, la portata del film e del libro da cui è tratto.
In più si corre un rischio. Se ci si sofferma troppo, alla presenza di un regista come Jiří Menzel, sulla riuscita della componente scenografica, dei costumi o della fotografia, costui si sentirà autorizzato ad arrogarsi l’unico merito di aver scelto bene i propri collaboratori; minimizzando così, con quella modestia che è in parte un vezzo e in parte barriera difficile da scalfire, qualsiasi altro lodevole intervento registico gli si voglia attribuire. In questo atteggiamento può esserci un fondo di verità: Ho servito il Re d’Inghilterra (Obsluhoval jsem anglického krále, 2006) dà effettivamente l’impressione di mettere a profitto l’apporto creativo di un cast tecnico estremamente partecipe e qualificato. Ma la capacità di muoversi nella letteratura di Hrabal conservandone il respiro profondo, di cui il regista aveva offerto prove eccellenti con la realizzazione di Treni strettamente sorvegliati e Allodole sul filo, trova conferma nel primo film di tale derivazione da lui diretto dopo la morte dell’amico scrittore, senza perciò avvalersi, come avveniva in passato, della sua collaborazione in fase di sceneggiatura.
Premiato alla Berlinale nel 2007, presentato da noi in anteprima a Trieste e a Ravenna, Ho servito il Re d’Inghilterra unisce quindi una confezione piuttosto esuberante dal punto di vista visivo, quasi barocca, ad una sostanza che potrebbe apparire impalpabile ed invece riluce in più di una occasione: l’ironia. Quell’ironia praghese che è solita impreziosire le opere dello scrittore, trasferendosi poi con impressionante naturalezza in quelle del regista.
In un testo come Ho servito il Re d’Inghilterra, considerato unanimemente tra i picchi più alti della letteratura hrabaliana, Menzel ha poi trovato quella figura di anti-eroe, il già citato Jan Díte, in grado di far vibrare attraverso le sue paradossali esperienze una sfilza di aneddoti irresistibili e pagine assai dolorose della storia ceca, come quelle relative all’occupazione nazista. Tutto all’insegna di un cocktail molto personale di istanze libertarie, erotismo, quadretti felliniani, malinconie incombenti, satira anti-borghese, ed ansie dovute alla costante minaccia dei vari totalitarismi.
Valida, sotto il profilo narrativo, si è rivelata la scelta di proporre un’alternanza continua di due piani temporali, connotatati anche stilisticamente in modo diverso: inquadrature luminose e colori smaglianti per ciò che riguarda il passato, con incursioni più frequenti nel grottesco e nel surreale, tonalità più opache e uniformi per le scene che descrivono invece il percorso del protagonista, arrestato dalle autorità agli albori del periodo comunista, subito dopo la scarcerazione. Al resto hanno pensato, con la loro disinibita freschezza, gli interpreti, tra cui il bulgaro Ivan Barnev nei panni di Jan Díte da giovane, e la teutonica Julia Jentsch, che avevamo già apprezzato come protagonista di La rosa bianca – Sophie Scholl.
Stefano Coccia