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Hablar

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VOTO: 6

Parole, parole, parole, soltanto parole…

Quando si pensa al piano sequenza torna subito in mente Arca russa di Aleksandr Sokurov (2002), essendo uno degli esempi più emblematici a riguardo. Hablar di Joaquín Oristrell, visto nella tappa milanese del Festival del Cinema Spagnolo 2016, usa proprio questa tecnica, rivelandosi, però, a conti fatti, soprattutto un esercizio di stile ben fatto. La macchina da presa ci porta a immergerci, di notte, nelle strade di Madrid per mostrarci tante microstorie con i personaggi che entrano ed escono dal quadro e l’obiettivo che cerca di catturare la realtà quasi pedinandola. Agli incroci, agli angoli delle strade, all’uscita della metro si incontrano, sfiorano e captano volti e corpi che spesso e volentieri non riescono o non vogliono ascoltarsi..
Il punto è che, al di là dell’essere a conoscenza di cosa ci fosse all’origine e dietro questo progetto, per quanto gli interpreti siano bravi, si avverte, talvolta, un che di artificioso e studiato. In altri passaggi, invece, il film acquista un sapore di presa diretta quasi documentaristica come se lo spettatore fosse lì, in quel preciso istante. Un punto di forza di Hablar – e ambiguamente, a suo modo, anche punto debole – è appunto il “parlare” declinato ora come dialogo, ora come monologo o soliloquio. A tratti, in vero e proprio mood teatrale e in sintonia con il desiderio di rappresentare la solitudine che vige nelle nostre città, c’è chi inizia a monologare con accenni anche a massime morali.
L’escamotage del piano sequenza aiuta così in questo collage di storie e persone anche (apparentemente) non connesse tra loro, ma non sempre efficaci nel creare empatia con la platea di turno. Un esempio italiano che era riuscito a rompere l’unità spazio temporale pur girando con questa tecnica è stato Valzer di Salvatore Maira (2007). In questo caso i flashback creavano uno stacco da quell’hic et nunc, rendendo la struttura del lungometraggio un po’ più elaborata.
Tornando ad Hablar, qui il linguaggio cinematografico si mixa con quello teatrale per comunicare gli effetti della crisi economica, ma anche identitaria, e trasmettere, al contempo, la forte spinta nel volersi rialzare. Il regista catalano, dopo Los abajo firmantes (2003), torna a servirsi di attori amici che di fronte alla macchina da presa improvvisassero seguendo certo una sceneggiatura di base. Il cast è permeato da stelle dell’attuale cinema spagnolo, da Goya Toledo, ad Antonio de la Torre, da Raúl Arévalo a Juan Diego Botto – solo per citarne alcuni. Gli attori, va detto, sono bravissimi nel restituire una sensazione di smarrimento (anche interiore) tra le vie di Madrid, alcuni personaggi camminano senza avere una meta e questo è innegabilmente metafora del nostro status. Andando oltre la città spagnola che fa da sfondo (e non solo), ci accomuna come esseri umani.
Hablar si propone, infatti, di testimoniare ciò che siamo in questo determinato momento storico-politico e umano, peccato che non riesca ad affondare ancor più nel substrato e nella psicologia.

Maria Lucia Tangorra

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