Io ballo da sola
Spesso si fa davvero fatica ad accettare un remake, a maggior ragione quando la matrice dalla quale si è andati ad attingere oltre ad essere recente è anche di pregio. La storia della Settima Arte conta ormai migliaia di rifacimenti a tutte le latitudini per una pratica che ha sopperito – e lo fa tuttora – alla pigrizia degli autori, oltre che alla mancanza e alla siccità planetaria di plot e personaggi originali, diventando di fatto una consuetudine e una gallina dalle uova d’oro da spremere in assenza di altro.
Il più delle volte si assiste a copie sbiadite e futili, concepite solamente per riempire le tasche dei produttori di turno poiché nate sulla spinta propulsiva di un’esigenza di natura commerciale e non artistica. Per modus operandi, il remake punta a dare una nuova veste alla materia prima, magari proponendo una visione o un approccio diversi al racconto da parte del regista rispetto a quello che lo ha preceduto. In tal senso, ci siamo trovati al cospetto sia di stravolgimenti sia di riproduzioni fedelissime anche nella resa visiva (vedi lo Psycho di Gus Van Sant), o come nel caso del film che ci apprestiamo ad analizzare nient’altro che a dei cambiamenti che non hanno spostato l’equilibrio. Insomma, il classico risultato che non cambia nonostante la sostituzione degli addendi. Passino i sequel, i prequel, gli spin-off e compagnia bella, ma sinceramente proprio non capiamo perché lo stesso regista torni a rigirare lo stesso film se non a beneficio del proprio conto in banca. E ancora di più senza una modifica sostanziale sufficiente a motivare lo sforzo profuso. Non è la prima volta che accade e anche in quelle altre operazioni analoghe che ci tornano in mente (da Funny Games a Bangkok Dangerous) non ci fanno cambiare idea in merito. Se poi a venire meno è anche un fisiologico iato temporale tra la fonte e il suo calco, mirato a un qualche tipo di aggiornamento o attualizzazione del racconto in questione, allora viene da chiedersi quale debba essere il motivo d’interesse per giustificare tanto la realizzazione del progetto quanto la fruizione da parte di un pubblico che magari ha ancora ben impresso nella mente il nativo.
Viene da sé allora chiedersi, nello specifico del remake americano di Gloria, cosa abbia convinto lo stesso Sebastián Lelio e il produttore Pablo Larraín a rimettere le mani alla pellicola del 2013. Se era quello di provare a migliorarlo, allora hanno fatto uno sforzo inutile, poiché l’esito a nostro avviso, pur con qualche nota di merito, non raggiunge l’obiettivo prefissato. In Gloria Bell, nelle sale italiane dal 7 marzo, il pluripremiato cineasta cileno torna a raccontare, tra pochi alti e moltissimi bassi, le disavventure familiari e soprattutto sentimentali di una cinquantenne divorziata alla ricerca dell’amore e dell’autorealizzazione. In questo rifacimento, la protagonista è passata di testimone da Paulina García a Julianne Moore, spostando l’azione da Santiago del Cile a Los Angeles. La nuova Gloria continua ad amare i suoi figli, ormai adulti, ma non è solo una madre e una nonna attenta. Adora ballare nei club per single e, tra un amante all’altro, non smette di credere all’amore. Proprio sulla pista da ballo incontra Arnold, recentemente divorziato: tra i due nasce una passione travolgente che gli farà riscoprire una felicità quasi dimenticata. La sua ex moglie e le figlie, ormai adulte, però, hanno su di lui una presa nociva: il suo cellulare squilla incessantemente e lui non sembra sapersi staccare dal passato.
Leggendo la sinossi e guardando la nuova versione chi come noi ha visto il primo tentativo non può che provare solo una sensazione di déjà-vu, oppure impegnare il tempo della fruizione a trovare le differenze. Si assiste quindi solo a delle virgole che cambiano, aggiunte o sottratte di volta in volta all’architettura narrativa e drammaturgica del racconto originale, oppure al disegno di chi lo ha abitato e di chi ne ha preso il posto. Diversa ovviamente la posizione dello spettatore a digiuno che nulla ha visto e nulla a sentito della pellicola del 2013. Per il resto, invece, l’unico motivo d’interesse vero è quello di vedere in azione due “pesi massimi” della cinematografia mondiale sullo stesso set, che da anni operano dietro e davanti alla macchina da presa, ossia i Premio Oscar Lelio e Moore, ben supportati nel lavoro di un efficacissimo John Turturro nei panni di Arnold, che non può che essere il corrispettivo a stelle e strisce del personaggio di Rodolfo nella pellicola made in Cile (interpretato con altrettanta bravura da Sergio Hernández). Il regista e gli interpreti fanno il loro e quel che fanno basta a condurre la nave in porto per la seconda volta. Fortuna della Moore, già straordinaria di suo quando viene chiamata in causa per dare un contributo a certi one woman show (da Lontano dal paradiso a Still Alice), è avere ripreso le redini di un cavallo che aveva già mostrato il suo valore quando a guidarlo era stato la collega cilena, che proprio con quel personaggio si è aggiudicata l’Orso d’Oro per la miglior interpretazione femminile alla Berlinale 2013. La García ci aveva messo del suo e così ha fatto anche la Moore. I risultati per entrambe, seppur seguendo traiettorie diverse nella personalizzazione del personaggio, sono di qualità e infatti non possono passare inosservati, anche se per l’attrice cilena è stata una scoperta della sua bravura, mentre per la statunitense l’ennesima conferma.
Al netto, Gloria Bell riesce comunque a strappare una sufficienza in pagella nonostante l’immotivata scelta di riportare nuovamente il plot sulle schermo, puntando sulla sostituzione di una manciata di ingredienti nella ricetta originale. Il tutto con lo scopo di giustificare lo spostamento dell’azione dal Cile agli Stati Uniti di una storia che lì dove era nata sei anni fa aveva trovato il proprio habitat naturale, anche se a conti fatti quello di Gloria è un disegno universale sia in termini caratteriali che di one line. Di conseguenza, di profili simili al suo se ne contano un’infinità persino dalle nostre parti (vedi i personaggi solitamente affidati alla Buy o alla Morante, tanto per fare qualche nome). Eppure all’epoca e anche nel suo settimo lungometraggio il cineasta cileno aveva e ha saputo dare forma ad un ritratto femminile godibile, pieno di sfumature e contraddizioni, fragilità e slanci. Ingredienti, questi, senza alcun dubbio di valore e che non a caso rappresentano la scialuppa di salvataggio del remake di Lelio, regista che nei ritratti femminili dipinti sulla tela del grande schermo con colori diversi sulla tavolozza sembra trovare sempre grandissima ispirazione (vedi Una donna fantastica).
Francesco Del Grosso