Didascalico film biografico piegato alla politica
Nell’America glamour e razzista degli anni ‘50 la cantante di colore Billie Holiday (una bravissima Andra Day) rilascia un’intervista in cui ripercorre la sua tormentata carriera. Pian piano emerge un quadro a tinte forti che riguarda non solo l’artista, ma anche un paese che attraversa bruschi cambiamenti ed inquietudini sociali. Al suo grande successo si mescolano via via i gravi problemi legati agli abusi di alcol e stupefacenti, si alternano gli uomini della sua vita, tutti invariabilmente violenti, egoisti e possessivi. L’Fbi, il cui ufficio per la lotta ai narcotici è capeggiato dal razzista Harry J. Anslinger (Garrett Hedlund) la segue con attenzione, ben sapendo che Billie fa un uso estensivo di eroina. Riesce a infiltrarsi negli ambienti grazie all’idea di avvalersi di agenti neri e uno di questi, Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes), ha finalmente successo nel carpire l’amicizia della Holiday, trovando le prove necessarie per farla arrestare. Dopo quasi un anno di carcere, è il momento di un memorabile rientro, quello dello storico concerto al Carnegie Hall di New York: una serata con tutto esaurito dove vengono cantate decine di canzoni, fra cui anche la famigerata “Strange Fruit”. Quest’ultimo è un pezzo del quale, durante il film, si parla parecchio poiché sarebbe uno dei maggiori motivi di attritto fra Billie e il governo degli Stati Uniti. Il testo infatti, scritto dall’attivista politico Abel Meeropol, ripercorre l’abominevole pratica del linciaggio dei neri e costringe gli ascoltatori a guardare in uno dei peggiori abissi nel cuore d’America, uno in cui l’assassinio impunito di persone afroamericane viene condotto senza sosta da decenni. Nonostante però il ritrovato rapporto con il pubblico, per la cantante non sembra esserci modo di sfuggire ai vizi, alle debolezze, alle maledizioni, anche quando l’agente Fletcher, pentito delle sue azioni e innamoratosi di lei, cerca di aiutarla. Com’è noto, una vita di eccessi e di abusi esige un prezzo e Billie Holiday, il cui vero nome era Eleanora Fagan, muore ad appena 44 anni nel luglio del 1959.
Questo affresco storico, dal significativo titolo Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, è impreziosito da alcune notevoli prove attoriali, la Day su tutti si merita senza dubbio il Golden Globe che le è stato assegnato nel 2021. Di grande rilievo è anche la cura delle scenografie, una ricostruzione maniacale di ambienti, oggetti e paesaggi urbani, senza contare i bellissimi abiti di scena. Nonostante ciò, si ha spesso l’impressione che l’approccio del regista Lee Daniels sia eccessivamente televisivo, non a caso è il co-creatore delle serie Empire (2015) e Star (2016), entrambe ambientate nel mondo della musica. La fotografia non è particolarmente suggestiva, appiattisce le immagini, le banalizza quanto l’eccessivo e insistito uso delle dissolvenze. Più volte le numerose canzoni di Holiday vengono cantate per esteso, commentando interi segmenti di pellicola che, purtroppo, finisce a tratti per apparire come una serie di noiosi videoclip collegati da alcuni passaggi di trama. Essendo quest’opera basata sul libro “Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs” di Johann Hari, che parla della criminalizzazione dell’uso della droga, il punto di vista che viene proposto allo spettatore è quello di una donna e di un’artista perseguita incessantemente per motivi più ideologici che schiettamente penali. La politica prende il sopravvento, gli autori cercano di trasformare la Holiday in una leader dei diritti dei neri americani, ma in realtà essa non è mai stata un’attivista, nonostante la sensibilità mostrata verso le cause della propria gente (la canzone “Strange Fruit” sta a testimoniarlo, anche se la sua importanza viene ingigantita). La sceneggiatura di Suzan-Lori Parks, musicista e scrittrice, non solo tradisce un forte schieramento politico, dunque, ma inciampa in frequenti debolezze, con dialoghi improbabili o spaventosamente banali. Ai protagonisti viene fatto dire che la lotta alla tossicodipendenza non è che una scusa per distruggere i neri: una evidente forzatura, perché se certamente l’accusa può essere stata usata per colpire un personaggio scomodo, non è certo la droga l’unico pretesto con cui si attacca un avversario e, oltretutto, non è un’operazione che è stata fatta solo nei confronti di persone di colore. Aggiungiamo una rappresentazione grossolana e macchiettistica degli antagonisti, con gli uomini del governo che sembrano dei cattivi da operetta, e questo prolisso ritratto di una delle più grandi cantanti jazz della storia, più di due ore di film, si lascia dimenticare in fretta.
Massimo Brigandì