Di madre in figlia
Tra i sette titoli in concorso alla 43esima edizione del Bergamo Film Meeting c’era anche quello di Ulrik Kofler, che gli addetti ai lavori e i cinefili ricorderanno non tanto per le sue prove dietro la macchina da presa, piuttosto per le indubbie qualità che ha dimostrato di avere come montatrice di progetti per il piccolo e grande schermo: su tutti Il corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer. Come regista invece non aveva ancora lasciato il segno, con l’opera prima La vita che volevamo rivelatasi ancora acerba e piuttosto discontinua in termini di scrittura e di resa. Da quella prova barcollante e imprecisa di anni ne sono trascorsi quattro, con il suo nuovo film Gina, presentato nel concorso della kermesse bergamasca dopo l’anteprima mondiale al Munich Film Festival, che si è dimostrato di ben altra caratura, risultando a conti fatti anche tra i preferiti dal pubblico. Inevitabile per una pellicola che ha nel proprio DNA gli ingredienti giusti sia in termini narrativi che empatici per fare presa su una vasta gamma di spettatori.
La storia è quella di Gina, una bambina di nove anni che deve prendersi cura dei due fratellini e di una madre troppo giovane, single, alcolizzata e in attesa del quarto figlio. Vorrebbe avere una famiglia solida, una figura paterna e una nonna affettuosa. Invece si trova a combattere la povertà, l’abbandono dell’ultimo amante di sua madre e la pressione dei servizi sociali. Gina però si rifiuta di accettare un destino di fallimenti, che minaccia di perpetuarsi inesorabilmente di generazione in generazione.
Analogie nella trama riportano la mente neanche troppo lontano a Paradise is Burning di Mika Gustafson, ma in generale a tante altre vicende il cui racconto prende forma e sostanza da una dramma domestico e generazionale come può essere il caso, spingendosi un po’ più in là e seguendo altre traiettorie, a Un gelido inverno di Debra Granik. Il ché non gioca sicuramente a favore dell’originalità del plot, tuttavia la Kofler trova modo e maniera di coinvolgere e appassionare il fruitore, anche grazie alle intense, toccanti e partecipi interpretazioni dell’intero cast, nel quale spicca per forza di cose la giovanissima Emma Lotta Simmer nel ruolo della protagonista. Sono le performance singole e corali uno dei valori aggiunti della pellicola, che di riflesso mettono in evidenza la bravura della regista di Innsbruck nella direzione dei bambini, oltre che degli attori più navigati. Assistiamo infatti a delle convincenti performance, capaci di comunicare tanto il dolore quanto la confusione e la disperata ricerca di affetto e amore dei grandi e soprattutto dei piccini.
All’interno di Gina si ramificano, come accade anche nei film delle suddette colleghe, gli stilemi del drama e del coming-of-age. Da una parte fa dunque leva su una storia improntata al forte realismo o su di un’indagine sui ceti più indigenti, raccontando un contesto miserabile e infausto utilizzando un linguaggio essenziale, con una macchina a mano che sta costantemente attaccata ai personaggi senza però escludere mai il contesto in cui sia le protagoniste che la cinepresa stessa sono chiamate a muoversi. Dall’altra invece porta sullo schermo le pagine del romanzo di formazione di cui sopra, con tutte le tematiche ad esso strettamente correlate che riguardano la sfera domestica. Il tutto tenuto insieme in armonioso equilibrio e in costante interscambio, senza che l’una fagociti mai l’altra, così da permettere all’autrice di toccare tematiche e dinamiche universali come quelle del confronto generazionale e della maternità. Quest’ultima, pur se declinata in maniera diversa, resta comunque un baricentro su e intorno al quale ruota il suo cinema. Se qui c’è una giovane donna incinta circondata da tre bambini, con un quarto in arrivo, in La vita che volevamo si assiste a una condizione inversa con una coppia alle prese con problemi di fertilità. In entrambi i casi però l’autrice non giudica, ma si concentra sugli effetti che tali condizioni hanno sui personaggi.
Come dichiarato apertamente dal titolo, la centralità è affidata proprio a una delle figure principali, quella di Gina appunto, della quale seguiamo spesso la prospettiva attraverso una macchina da presa che si posiziona spesso sul suo volto e alla sua altezza. La Kofler si concentra si focalizza su di lei anche per mostrare il reiterarsi di alcuni schemi che vedono le scelte delle madri ricadere sulle figlie in una struttura comportamentale ciclica che sembra ripetersi di generazione in generazione. Questo allargasi dello spettro consente al film e alla sua autrice di attirare a sé la catarsi di un pubblico più largo ed eterogeneo, che coinvolge più fasce d’età.
Francesco Del Grosso