Thomas (Were)Wolfe
Per rendere l’idea di quanto possa risultare pacchiano, in certi momenti, l’approccio a certe grandi figure della letteratura mondiale tentato in Genius da Michael Grandage, si potrebbe citare l’ingresso in scena del grande Ernest Hemingway. A impersonarlo è Dominic West. Ma tanto il look scelto per l’attore che la posa da lui assunta, dopo una battuta di pesca particolarmente fruttuosa, finiscono per dare all’ambientazione marinaresca un’impronta così kitsch, da farlo apparire come un Magnum P.I. ante litteram in una qualsiasi puntata del celebre telefilm.
Un film come Genius si muove con poca delicatezza, con ancor più scarsa attenzione alle sfumature, lungo quelle piste che il cinema hollywoodiano è abituato a battere fino allo sfinimento: da un lato il biopic nella sua accezione più classica, dall’altro gli ormai abusati ritratti di artisti o scienziati in cui il genio fa rima necessariamente con quella sregolatezza, pronta a sfociare in atteggiamenti sempre più maniacali, esagerati, sopra le righe. Ed è qui che in genere casca l’asino.
Abbiamo detto di Hemingway, si potrebbe aggiungere un F. Scott Fitzgerald costantemente cupo e affranto, la cui mesta apparizione rappresenta anche l’ennesimo tentativo andato a vuoto in questi anni di offrire ancora a Guy Pearce un ruolo valido, degno delle ottime prove offerte in passato. Ma è un nome forse meno noto (almeno in Italia) della letteratura americana moderna a rubare platealmente (avverbio quanto mai appropriato alle circostanze) la scena agli altri importanti scrittori testé menzionati. Vero co-protagonista di tale lungometraggio (assieme al personaggio che sveleremo a breve), centro di gravità permanente della fin troppo enfatica narrazione, è lo sfortunato Thomas Wolfe: autore scomparso precocemente dalla scena, a meno di quarant’anni, per un male improvviso e dopo un’esistenza a dir poco intensa, problematica, tumultuosa.
Scrittore cui la notorietà giunse dopo parecchi rifiuti da parte degli editori, Thomas Wolfe ha sfornato tra gli anni ’20 e ‘30 del Novecento alcuni romanzi fluviali, sofferti, poetici, introspettivi, come Angelo, guarda il passato o Il fiume e il tempo. Per impersonarlo Michael Grandage ha scelto un attore estroso ed estremamente dotato come Jude Law. Il timbro dato a tale interpretazione, però, è la prova più evidente del discutibile mood perennemente sovreccitato cui devono prestarsi qui le performance attoriali più in vista e la narrazione stessa: costantemente in overacting, Jude Law si agita per ogni cosa, declama parti di un suo libro come un ossesso, tormenta coi suoi capricci colleghi, amici e persone di famiglia (compresa la povera Nicole Kidman nei panni di Aline Bernstein, per un certo periodo sua bistrattata compagna di vita), si sbraccia e dà di matto. Il personaggio da lui interpretato si chiama Thomas Wolfe. Ma verrebbe voglia di ribattezzarlo “Werewolf”, ovvero lupo mannaro, perché si ha il timore che da un momento all’altro cominci pure a ululare alla luna…
Approcciando la natura di tale narrazione cinematografica da una prospettiva più defilata, abbiamo taciuto finora il nome del co-protagonista e autentico baricentro di Genius: è costui l’autorevole editor che collaborò spesso coi vari Hemingway, Scott Fitzgerald, Wolfe, ossia quel Maxwell “Max” Perkins cui Colin Firth tenta, da par suo, di conferire un incedere più sobrio, misurato, elegante. Sforzo tutto sommato inutile. L’idea di porre in primo piano una figura chiave dell’editoria moderna era di suo giusta. Ma i duetti tra Jude Law e Colihn Firth finiscono comunque per setacciare tutti gli stereotipi relativi al sacro fuoco dell’arte, proponendo una galleria di eccessi, di incontenibili reazioni emotive, di vite private sacrificate per la letteratura, il cui carattere trito e ritrito si riflette peraltro in quella teatralità di fondo suggerita ai protagonisti da un regista, Michael Grandage, il cui rapporto col mezzo cinematografico dimostra qui di non saper fare a meno, ahinoi, di tutta quest’enfasi.
Stefano Coccia