Nel paese dei misteri insabbiati
Esiste ancora, in Italia, un cinema che fa del concetto di etica la propria ragion d’essere. Basta alzare lo sguardo oltre la programmazione dei vari multiplex. E non sarebbe affatto una contraddizione in termini se un documentario come Fuoco amico – La storia di Davide Cervia venisse proiettato anche nel regno del cinema di puro intrattenimento. In primis perché il venire a conoscenza di determinati fatti può solo indurre alla riflessione anche un pubblico che magari preferirebbe ignorarli. In seconda battuta poiché, a suo modo, il film realizzato dal redattore storico di CineClandestino Francesco Del Grosso, è anche un’appassionante ricostruzione dai contorni thriller di un fatto con ancora moltissimi punti oscuri. Tenendo ben presente, ovviamente, un risvolto impossibile da trascurare: il tutto è tratto da una vicenda realmente accaduta, un dramma che da privato e personale che poteva essere diventa invece perfetta sineddoche della deriva morale di un paese istituzionalmente del tutto sordo alle richieste di verità urlate da più parti a proposito di tragedie – esercizio di sterile sofismo citarle tutte – rimaste ancora, a distanza di decenni, senza il nome dei responsabili scritto in calce a qualche sentenza.
Il 12 Settembre del 1990 a Velletri, luogo di residenza, Davide Cervia scompare nel nulla, come inghiottito da un buco nero. Sottratto improvvisamente agli affetti della famiglia, composta dalla giovane moglie e due figli in tenera età. Parte una denuncia ma nessuno, tra le forze dell’ordine, pare avere molta voglia di indagare. Si privilegia da subito la pista dell’allontanamento volontario, nonostante l’ipotesi si riveli assolutamente priva di fondamento. Trattasi dei prodromi di una strategia di depistaggio che, nel corso del tempo, toccherà vette addirittura farsesche, con tanto di supertestimoni imbeccati di sana pianta auto-dichiaratisi amici intimi di Davide Cervia senza nemmeno, con tutta probabilità, averlo conosciuto. Fino a che non emerge, con relativa chiarezza, la versione che Cervia sia stato rapito per le sue qualità di esperto in materia di guerra elettronica, un ruolo evidentemente chiave da “esportare” coattivamente assieme a quel traffico d’armi capace di far guadagnare laute somme di denaro alle frange più oscure del nostro paese. Non a caso l’ultima sentenza “istituzionale” sul caso afferma tutto e il suo contrario: rapimento per mano ignota.
Il documentario di Francesco Del Grosso, anche per una questione empatica nonché per l’appurata, totale assenza di una qualsivoglia controparte, sposa il punto di vista della moglie di Davide Cervia, Marisa Gentile. Il suo coraggio costituisce la bussola mediante la quale orientarsi nel film. Un’opera che, grazie alla qualità della realizzazione, “obbliga” chi guarda ad immedesimarsi nella tragedia infinita di una donna – assieme ai suoi figli – costretta a convivere ogni giorno da venticinque anni con la ferita profondissima di una scomparsa priva di una verità chiara ed oggettiva a monte. Eppure, in questo crimine irrisolto, la parola chiave rimane sempre dignità. Quella di una famiglia, appoggiata da un gruppo di persone convinte che si possa e si debba vivere in un’Italia migliore, che non ha mai perso la speranza, lottando con determinazione per ottenere una parola definitiva su quello che sembra ancor oggi assumere i poco nitidi contorni di un maleodorante intrigo di stato. E se nel presente il caso di Davide Cervia è tornato di attualità in un paese continuamente vittima di amnesie indotte, in buona parte lo si deve anche a Fuoco amico. Un documentario che dimostra ancora una volta, dopo gli ottimi Negli occhi (2009) e 11 metri (2011), non solo la sensibilità di un regista capace di farsi coinvolgere appieno nelle figure raccontate – nelle opere appena citate, rispettivamente l’attore Vittorio Mezzogiorno e il calciatore Agostino Di Bartolomei – riuscendo peraltro a mantenere quel distacco indispensabile per il raggiungimento di un’obiettività lontanissima dall’agiografia, ma anche nella scelta morale di trovarsi dalla parte “giusta” di chi, semplicemente, ha solo sete di sapere come siano andate realmente le cose. E la bellissima sequenza di apertura del film, in cui lo spettatore osserva dapprincipio il fuori fuoco di una persona indistinguibile in movimento su un vialetto di campagna, che poi si rivelerà essere la signora Cervia nella stradina – luogo che rivestirà una certa importanza nell’indagine autonoma intrapresa da Fuoco amico – che porta alla villetta di casa, è già una precisa dichiarazione di intenti sia artistici che soprattutto etici, a proposito del fatto che mai dovrebbero esistere verità irraggiungibili da cui togliere il velo di omertà che le avvolge.
Daniele De Angelis