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Funan

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VOTO: 7

Animazione del dolore

Sprofondare in poco tempo dalla normalità all’abominio più totale. Un’esperienza, questa, di cui il regista Denis Do ha una percezione molto chiara, visto che sua madre sperimentò in prima persona la follia e gli orrori del genocidio cambogiano. Animato secondo tecniche tradizionali, forse un po’ grezze ma funzionali allo scopo, Funan è il lungometraggio presentato durante la 13esima Festa del Cinema di Roma in cui disegni all’apparenza morbidi, caldi, rassicuranti, si rivelano strada facendo strumento ideale per raccontare le inaudite violenze compiute dagli Khmer Rossi ai danni del proprio popolo, con circa due milioni di persone inermi e incolpevoli brutalmente massacrate. Tutto nel nome di un forsennato “odio di classe” e di un’ideologia marxista ridotta a distopia, senza più alcuna visione di stampo umanistico a sorreggerne l’applicazione, nelle campagne di quella piccola nazione del sud-est asiatico trasformatasi ben presto in immenso campo di sterminio.

La linea temporale del film prende le mosse dal 17 Aprile 1975, giorno in cui il tetro regime di Pol Pot prese il potere cominciando ad attuare la programmatica deportazione ed eliminazione degli ignari abitanti di Phnom Penh, la capitale, per concludersi poi con il crollo di un governo tanto sanguinario: collasso avvenuto nel 1979 e propiziato, peraltro, da un’azione militare del confinante Vietnam.
Denis Do ha scelto di raccontare una simile escalation drammatica, nonché le indicibili sofferenze ivi imposte alla popolazione, seguendo le tappe della progressiva dissoluzione di una normale famiglia.
Tale procedimento ci ha ricordato un po’ Gen di Hiroshima, quel piccolo capolavoro dell’animazione nipponica (e manga di culto, in precedenza) che mostrava proprio questo, il repentino passaggio dall’armoniosa quotidianità di una famigliola giapponese raffigurata in modo adorabile e accattivante a tutto lo strazio, il dolore, arrecato ai suoi componenti dall’apocalisse nucleare.
Ecco, rispetto a simili precedenti si è scelto in Funan di essere meno espliciti nella rappresentazione della violenza, dei corpi martoriati, descrivendo sì le modalità cruente del genocidio cambogiano, ma attraverso lapidarie ellissi o lasciando addirittura fuori campo le scene più crude e feroci di un racconto cinematografico che ricalca, è giusto ricordarlo, il ricorso sistematico alla repressione, alla tortura e alle uccisioni indiscriminate cui si era dovuto assistere in quelle terre. Per gusto personale, avremmo preferito che anche gli aspetti più raccapriccianti di quella tragedia venissero messi in scena senza reticenza alcuna, dando loro un taglio persino più crudo. Ciononostante quello realizzato da Denis Do resta un esempio di animazione “adulta”, matura, in grado di scuotere le coscienze con la propria asprezza. Un vero pugno allo stomaco. E ciò che si afferma sullo schermo è quindi degno controcampo di altri lavori cinematografici, dal datato ma vibrante Urla del silenzio ai documentari di Rithy Panh, grande autore cambogiano scampato rocambolescamente alla morte (a differenza di gran parte dei suoi famigliari) e guidato dall’irrefrenabile volontà di testimoniare quanto accadde con le proprie opere: tutti validi esempi, ma ce ne sarebbero altri, di un cinema  che in anni più o meno recenti ci ha portato a conoscere meglio gli aspetti più deprecabili e disumani di cotanta tragedia.

Stefano Coccia

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