Total Eclipse of the Heart
Presentato in competizione al 29° Festival Cinema Africano, Asia e America Latina, Freedom Fields il primo lungometraggio della regista Naziha Arebi, nata e cresciuta in Inghilterra da padre libico e madre inglese, che ha deciso di andare per la prima volta nel paese paterno e documentare gli sviluppi successivi alla caduta del regime di Gheddafi. Il primo documentario sulla Libia di una regista di origine libica, che mantiene il punto di vista femminile seguendo le vicissitudini della squadra della nazionale femminile di calcio, viste come termometro dei progressi, ma più frequentemente dei regressi, della vita sociale e civile del paese arabo. Il calcio, e lo sport in generale, è spesso stato usato dal cinema come metafora della libertà. Lo ha fatto il cinema spettacolare di Hollywood e uno degli ultimi leoni della Mecca del cinema come John Huston, riusciva a concepire addirittura una partita a calcio catartica tale da abbattere i muri di un campo di concentramento nazista. Così come catartica è la vittoria, nel football americano, in chiave di rivalsa e riscatto sociali in Quella sporca ultima meta di Robert Aldrich. Se rimaniamo nel campo del documentario sui diritti umani, scopriamo, dal film Gaza Surf Club di Philip Gnadt e Mickey Yamine, come i ragazzi della striscia di Gaza, confinati in una grande prigione, pratichino il surf come unica di di fuga possibile.
Naziha Arebi misura la temperatura della democrazia nel suo paese di anno in anno, dal primo al quinto successivi alla prima guerra civile in Libia del 2011 che ha destituito il dittatore Gheddafi. Registra un progressivo deterioramento di quelle che si sono rivelate solo speranze di una svolta della vita civile in senso democratico e nel rispetto dei diritti umani. Documenta la disillusione di questa primavera araba, in modo non dissimile alle altre, il fallimento di una rivoluzione che, come spesso succede nella storia, crea solo un vuoto di potere pronto a essere riempito da qualcun altro. E nel caso delle primavere arabe questo si è tradotto in aumento della pervasività del fondamentalismo religioso quando non dell’infiltrazione dell’Isis, una volta crollato un regime dispotico ma laico. Naziha Arebi osserva e registra. E capta il commento di una persona che, vedendo in televisione gli attentati dell’Isis, riconosce che Gheddafi aveva previsto il caos dopo di lui. La rivoluzione è evaporata, osserva con disincanto qualcun altro. Era meglio prima, si sbilancia qualcun altro ancora.
Il grande merito di Freedom Fields è quello di cogliere le tante contraddizioni che accompagnano gli sviluppi del paese post-Gheddafi, evitando così schematismi e manicheismi. La grande campagna contro la squadra di calcio femminile condotta, con successo, dai settori religiosi integralisti, ai nostri occhi sinonimo di barbarie medievale, è portata avanti con le armi postmoderne dei social network. Gli strali dell’imam contro l’esibizione di nudità delle cosce delle giocatrici, sono visti in un filmato su Facebook. Il velo islamico, che la vulgata occidentale vede come simbolo di arretratezza, è portato da alcune ragazze, indipendenti, della squadra, mentre altre sono a capo scoperto e c’è chi invece indossa una copertura integrale come un burqa. Si tratta quindi di una variabile indipendente alla condizione di emancipazione o meno. E poi ci sono quei vestiti eleganti delle boutique, che le ragazze sognano di indossare in un ipotetico matrimonio. E nei campi dell’UNHCR coesistono abiti tradizionali sgargianti con magliette di topolino, in mezzo a soldati che portano il kalashnikov.
Freedom Fields è la storia del periodo tumultuoso che sta vivendo la Libia, della squadra della nazionale femminile, simbolo di parità di genere, ma è anche il ritratto di tre ragazze, Naama, Halima e Fadwa, verso cui proviamo empatia, che vediamo crescere durante il film anche perché, come dice qualcuno, «nel nostro paese le ragazze crescono troppo velocemente», portando il peso di quel mondo in dissoluzione. Il film è in definitiva il coming of age di tre ragazze libere che difendono con tenacia le proprie libertà e indipendenza, la cui energia è colta dalla regista nel momento in cui una di loro canta a squarciagola Total Eclipse of the Heart, la canzone di Bonnie Tyler degli anni Ottanta, una ballata simbolo di un’età spensierata.
Giampiero Raganelli