La catena dei sensi di colpa
Avrebbe dovuto essere un film indipendente, questo Franny (The Benefactor il titolo originale), opera prima del giovane ma già quotato Andrew Renzi, classe 1984. Usiamo il condizionale al passato perché, al termine della visione, il suddetto film pare invece possedere tutti i crismi del lungometraggio perfettamente mainstream, se si guarda il risultato finale dall’ottica del modus operandi. Avere cioè un divo a disposizione, nella fattispecie il magnifico sessantaseienne Richard Gere, e dunque poggiare l’intera pellicola sul suo carisma. Il problema non riguarda, a questo punto, quanto sia bravo il buon Richard o meno. L’ex American Gigolò istrioneggia da par suo e non si tira affatto indietro rispetto al, più o meno, gravoso compito. La principale difficoltà a cui va incontro Franny – la titolazione italiana è riferita al soprannome dell’eccentrico filantropo interpretato da Gere – riguarda infatti l’esilità di una trama già vista e sentita centinaia di volte, nella quale dramma, melodramma e commedia si fondono in modo disorganico fino a creare una sorta di poltiglia dal sapore indistinguibile. Con l’attore di peso in questione che si divora, letteralmente, tutto il resto del film, dalla banale sceneggiatura – sempre opera di Renzi – fino al resto del cast, costituito da orpelli solamente belli a vedersi quali ad esempio una Dakota Fanning in veste di giovane sposa e madre precoce.
Un telefonatissimo incidente d’auto, involontariamente causato dal nostro Franny, provoca la morte di una coppia a cui egli è molto legato. S’intuisce un amore latente con la donna, platonicamente riversato sulla di lei figlia Olivia (Dakota Fanning), al tempo adolescente. Tormentato dai sensi di colpa nonché isolatosi in un esilio di espiazione, in Franny si acuiscono i sintomi di un disturbo bipolare, fatto che ne rende i comportamenti assolutamente imprevedibili. Trascorrono gli anni. Proprietario di un ospedale, Franny trova all’istante un lavoro al giovane marito di Olivia, tornata a farsi viva e nel frattempo, appunto, sposatasi con annessa attesa di prole. L’intero terzetto di personaggi in campo ha qualche scheletrino nel metaforico armadio da farsi perdonare: Franny non ha mai rivelato la modalità reale dell’incidente d’auto dell’incipit, Olivia il fatto di essersi eclissata senza spiegazioni dalla vita di Franny; mentre il giovane medico Luke, marito di Olivia, ha ottenuto il titolo di studio solo grazie ad un pesante debito contratto dalla propria famiglia. I sensi di colpa, insomma, abbondano e si auto-alimentano. Come si può notare una situazione narrativa eccessivamente studiata a tavolino per favorire quel processo empatico che avrebbe dovuto far immedesimare il pubblico con i destini dei personaggi. All’atto pratico, nulla di tutto ciò. L’unico interesse del film, alla fine, si riduce alla contemplazione di un fulgido esempio di overacting, riguardante la performance di Richard Gere quando gli si lascia briglia sciolta nella recitazione. Come tutti i purosangue di razza, per continuare nella metafora equina, egli porta il film dove vuole lui. Cioè verso il risultato di una pellicola che soddisferà unicamente ammiratrici e ammiratori dell’incanutito divo. Peraltro recidivo in materia, visto che replica con variazioni minime il personaggio mentalmente irrequieto già interpretato per Mike Figgis in Mr. Jones nel lontano 1993.
Se, come affermano le note di produzione, Franny nasce da un dolore realmente provato dal regista Andrew Renzi, orfano di padre in giovane età, allora possiamo tranquillamente ribadire che la carenza maggiormente evidente del film risulta risiedere proprio in quella mancanza totale di sincerità derivante dal vissuto. Peccato discretamente grave per un cineasta comunque da rimandare ad altre occasioni, sperando in futuro riesca a prendersi qualche rischio autentico senza un Richard Gere a coprirgli le spalle.
Daniele De Angelis