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Finding Happiness

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VOTO: 6.5

Il circolo della fortuna e della felicità

“Ma tu hai sempre allevato capre?”
“No, prima di qui ero vice-sceriffo

Da un significativo dialogo di Finding Happiness

Tocca essere sinceri. Alla proiezione di Finding Happiness mi sono avvicinato con un consistente fondo di scetticismo, pronto magari ad estrarre dal cilindro, nel caso che i motivi di perplessità avessero prevalso, qualche titolo irriverente che esorcizzasse la matrice di un simile progetto audiovisivo. Qualcosa tipo: “Anvedi (o piuttosto An-Veda) come balla Ananda!”. Sì, perché il documentario in questione a ciò si ricollega, all’esperienza pluridecennale delle comunità di Ananda, sorte a partire dal 1968 sotto la spinta propulsiva del mistico Swami Kriyananda (a.k.a Donald Walters); il quale era stato a sua volta discepolo del grande maestro yogi Paramahansa Yogananda. E invece, nonostante il dichiarato intento apologetico e divulgativo, i motivi di interesse abbinati alla fascinazione che quegli ambienti e persone possono esercitare hanno oscurato, almeno in parte, la diffidenza iniziale.

In ciò mi sono sentito un po’ come la giornalista in carriera, resa protagonista della cornice narrativa del film. In questo curioso ibrido di intenti documentaristici e concessioni alla fiction è proprio tale figura, esterna alla comunità, ma introdotta nel racconto quale esempio di esistenza perennemente indaffarata e di naturale diffidenza verso qualsivoglia ricerca spirituale, il pretesto da cui prende le mosse l’esplorazione della piccola ma laboriosa comunità, fondata diversi decenni fa nel nord della California dal benemerito Swami Kriyananda. E al pari di Juliet Palmer (l’ipotetica giornalista, interpretata in realtà dall’attrice Elisabeth Rohm di American Hustle), anch’io da laico mi sono sentito proiettato in una realtà a prima vista sospetta, facile da confondere con le tante sette operanti in America, che tendono a barcamenarsi tra fanatismo religioso e dedizione al profitto. Come fa del resto un’altra setta più grande e conosciuta, che ha sede però in Vaticano. Ora, non si può certo dire che la logica del profitto sia completamente estranea alle attività di natura più commerciale, portate avanti in centri come il primigenio Ananda World Brotherhood Village, nei cui spazi armonici e a diretto contatto con la natura ho avuto quasi l’impressione di passeggiare, complice il livello di suggestione e coinvolgimento esercitato dalle immagini. Ma al tempo stesso ho avuto la sensazione che dietro vi fosse qualcosa di più profondo. Più in particolare, accanto alla salutare pratica dello yoga, accanto a quel sincretismo religioso di impronta “liberal” che sembra prendere un po’ dal cristianesimo delle origini e un po’ dalla cultura induista, ho visto all’opera una struttura sociale piena di connotazioni positive, una deriva antropologica in cui la dimensione comunitaria agisce razionalizzando le esigenze primarie ma senza soffocare la ricerca più personale; come le tante interviste a una sfilza di paciosi e sereni dottori, artisti, filosofi, agricoltori, educatori, artigiani, comunicatori web, solo per elencare alcune delle categorie presenti ad Ananda, sembrerebbero dimostrare. Un qualcosa, insomma, che negli esiti più maturi della sua dimensione collettivistica, m’ha ricordato persino taluni esempi di socialismo utopico come i Falansteri progettati nell’Ottocento dal francese Fourier.

A margine di queste indubbiamente soggettive notazioni sociologiche, Finding Happiness ha saputo catturare il mio interesse e risvegliare certe emozioni, senza però ottenebrare un senso critico che anche a livello estetico qualche riserva può porla. A cominciare dal doppiaggio italiano, che suona stentoreo e posticcio, mentre sacrosanta mi è parsa la decisione di lasciare in originale (coi sottotitoli) la voce suadente e gentile dell’ormai anziano Swami Kriyananda, che sarebbe poi morto a riprese concluse. A seconda degli stati d’animo, lo stesso tono costantemente radioso e solare della fotografia potrebbe apparire eccessivo; il che è persino paradossale, considerando che la regia morbida è accattivante del film è opera di Ted Nicolaou, passato in tempi più recenti a collaborare con la Disney, ma con un passato zeppo di horror e di altre pellicole ansiogene. Vedi ad esempio Terror Vision – Visioni del terrore (1986), oppure Vampiri (1991) coi relativi seguiti. Colte queste pecche, c’è da dire che il fascino di Finding Happines vi sopravvive ampiamente, forte della scoperta di uno stile di vita che non può certo risolvere, su scala globale, i problemi di un’umanità sempre più sofferente e schiacciata; ma che sembra contenere al suo interno anticorpi genuini, tali da porsi come possibile (per quanto parziale) antidoto all’imbarbarimento che l’uomo sta conoscendo in questi anni, nel degenerare della ormai planetaria crisi capitalista.

Stefano Coccia

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