Sergio Leone e discendenza…
Gli americani lo chiamavano spaghetti-western, o anche western all’italiana, in primis per dare una specifica localizzazione geografica al genere, ma soprattutto per differenziarlo da quello americano, dal western canonico: quello di John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann, Monte Hellman, o anche dal western crepuscolare di Sam Peckinpah…
O ancora, forse, anche per dire che lo spaghetti-western non c’entra niente con l’autentico West.
Nei film di Sergio Leone, che come tutti ben sanno è il Padre Fondatore del western all’italiana, ci sono vari elementi: le palle di fieno che rotolano portate dal vento, ci sono le strade impolverate, i saloon, le pistole, gli sceriffi con le stelle, la levità della vita che non vale niente e in cui non esiste alcuna forma di resipiscenza; però – cosa fondamentale – non ci sono le motivazioni del vecchio West, quelle che sono state il perno principale sul quale si è sviluppato il cinema (e la storia) americana (a cominciare da Nascita di una Nazione del Padre Fondatore – stavolta – del cinema, David W. Griffith!).
Nel western di Leone non c’è il mito della frontiera, non c’è la sfida costante dell’uomo con la natura e le circostanze più disparate delle saghe dei pionieri, non c’è né l’ingenuità epica che riduce il racconto all’azione né la revisione politica dei suoi miti come avviene nel già citato western crepuscolare di Peckinpah, di Arthur Penn, di Don Siegel, e volendo anche di John Carpenter, il quale secondo molti in tutta la sua carriera non abbia fatto altro che continuare a girare il remake di Un dollaro d’onore (Rio Bravo).
Lo spaghetti western, in fin de conti, è un genere a sé stante. Il genere preferito da Quentin Tarantino il quale sostiene di trovare «noiosi» i film di John Ford, e che per parte sua ne ha girati già due (per i pochi che non lo sapessero i film in questione sono Django Unchained e l’ultimo suo lavoro, ancora nelle sale, The Hateful Height che è finalmente valso l’Oscar al leggendario Ennio Morricone, il quale è stato accosta da Tarantino a Mozart e Beethoven). Film che ovviamente omaggiano il cinema western italiano e, in un certo qual modo, quello atipico di André De Toth.
Secondo wikipedia «Il primo western italiano fu Il terrore dell’Oklahoma del 1959 di Mario Amendola». La Storia del Cinema, da parte sua, tende quasi unanimemente a far coincidere la nascita del genere con Per un pugno di dollari di Sergio Leone del 1964. Film ormai leggendario con Clint Eastwood (che resterà per sempre l’icona assoluta del genere) e Gian Maria Volonté e facente parte della anch’essa famosissima Trilogia del Dollaro, assieme a Per qualche dollaro in più del 1965 ed Il buono, il brutto e il cattivo del 1966, da subito diventato un successo planetario e che ha fatto di Eastwood una star.
Film di cui è inutile parlare perché è già stato scritto tutto. C’è però da dire che Leone sfrutta un immaginario a lui estraneo (esotico verrebbe da dire) con estrema abilità e con uno stile unico, ma le sue radici non affondano nel cuore dei temi e dei sentimenti che hanno originato questo genere nato negli Stati Uniti ed americanissimo fino al midollo. Un elemento fondamentale che manca al western nostrano, soprattutto in Leone, è la dicotomia indiani d’America (per la maggior parte delle volte perpetuatori di violenza)/soldati. Oltre ad altri elementi: la Comunità (intesa come micro-cosmo organico), o anche i pionieri.
I film di Leone sono ambientati in un non-luogo non meglio identificato, ed i suoi personaggi agiscono in un vuoto, uno sfondo artificiale, nel quale hanno il primato assoluto. E proprio per questo motivo – come ci tiene spesso a sottolineare Paolo Mereghetti (che non ha mai amato Leone e non lo ha mai nascosto) – «il suo stile è più lirico che epico».
Da questo punto di vista (dell’epicità e delle comunità) Akira Kurosawa è molto più western. Sergio Leone, del resto, per il suo Per un pugno di dollari si ispirò proprio a La sfida del samurai dello stesso Kurosawa (il quale citò in giudizio Leone per plagio e fu risarcito, assieme allo sceneggiatore Ryuzo Kikushima, con i diritti esclusivi di distribuzione in Giappone, Corea del Sud e Formosa, oltre al 15 per cento sullo sfruttamento commerciale in tutto il mondo). Walter Hill, da parte sua, nel 1996 girerà una suo trascurabile remake con Ancora vivo; questa volta però nominando nei credits del soggetto Kurosawa e Kikushima.
Al di là degli aneddoti di sorta, dopo i peplum (altresì detti sandaloni) e prima del giallo e del poliziottesco, lo spaghetti-western è stato il genere che ha dominato in maniera il cinema italiano fra la metà degli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta, rivelandosi una vera e propria miniera d’oro.
Il western italiano è stato quindi importantissimo e val la pena citare qualche regista e qualche titolo in un excursus che risulterà troppo breve per un genere che è stato probabilmente il più prolifico, per poi parlare dei motivi della sua morte.
Dopo la citata trilogia, Leone girò altri due “western”: C’era una volta il West del 1968, con un cast stellare che comprende – fra i tanti – Charles Bronson, Henry Fonda e Claudia Cardinale ed al cui soggetto del film hanno collaborato, assieme al regista, Bernardo Bertolucci e Dario Argento; e Giù la testa del 1971 con Rod Steiger e James Coburn, in cui Leone tenta di adattarsi ai western pro-rivoluzione che andavano per la maggiore.
L’altra autorità italiana in materia di spaghetti western è stato Sergio Corbucci. Tra i tanti di titoli, sono sicuramente da citare: Navajo Joe (1966) con un giovanissimo Burt Reynolds il quale in seguito lo disconobbe definendolo «il film più brutto della sua carriera».
Vi è poi Django (1966) con Franco Nero protagonista. Film che ha avuto una infinita serie di imitazioni e seguiti apocrifi tra cui Il figlio di Django (1967) di Osvaldo Civirani, Django spara per primo (1966) di Alberto De Martino, Django il bastardo (1969) di Sergio Garrone, Pochi dollari per Django (1966) di León Klimovsky, Django 2 – Il grande ritorno (1987) di Nello Rossatti. Tributi sono arrivati dal giapponese Takashi Miike nel 2007 con il suo folle Sukiyaki Western Django, e dal più famoso Quentin Tarantino nel 2012 con Django Unchained (nel quale è presente un cameo dello stesso Franco Nero).
Nel 1968 gira probabilmente il suo capolavoro Il grande silenzio, del 1968. Un western atipico ambientato in un villaggio innevato dello Utah (in realtà Cortina d’Ampezzo) che mette contro il cacciatore di taglie Klaus Kinski al killer Jean-Louis Trintignant.
Degno di nota è anche Vamos a matar compañeros del 1970, ambientato durante la rivoluzione messicana, e che riesce a mettere insieme due fra gli attori più quotati in Italia in quel periodo: Franco Nero e Tomas Milian che risultano un’ottima accoppiata. Corbucci non nasconde di stare dalle parte dei ribelli, di coloro i quali “sono contro”, senza preoccuparsi troppo di definire un nemico preciso al di fuori di un potere generico e prepotente (e in ciò essendo coerente in senso filosofico al cinema di genere).
È invece del 1974 Il bianco, il giallo, il nero che è una sorta di testamento dello spaghetti western che già da qualche anno andava scemando. Emblematico è infatti l’incipit del film in cui una donna in una locanda fa un lungo discorso nominando praticamente i titoli più significativi del genere («Per un pugno di dollari, per un miserabile pugno di dollari che non sono non sono neanche tuoi e devi già ripartire. Almeno lo facessi per qualche dollaro in più e invece vamos a matar compañeros […]».
La seconda icona western più famosa al mondo, dopo Clint Eastwood, è il nostro Giuliano Gemma: leggendario supereroe del cinema italiano e che nello spaghetti western ha trovato la sua espressione più alta. L’eroe che ha dato popolarità a Gemma è stato il pistolero Ringo, che ha interpretato in due film: Una pistola per Ringo ed Il ritorno di Ringo entrambi del 1965 ed entrambi del suo fido regista Duccio Tessari.
Giuliano Gemma con il suo fisico scolpito (debitore del suo passato da pugile) con il suo sorriso beffardo ed allo stesso tempo malinconico tipico degli eroi senza tempo ha incarnato l’Eroe nazional-popolare più esportato all’estero (assieme a Lando Buzzanca, che nel Sud America è ancora oggi oggetto di idolatria). L’eroe senza macchia e senza paura, il buono che arriva da posti senza nome per mettere ordine in città devastate dalla violenza. Oltre l’eroe del west è stato Robin Hood in L’arciere di fuoco, Tex Willer in Tex e il signore degli Abissi (l’unico attore che poteva interpretarlo), l’eroe partigiano Corbari nell’omonimo film, il gestore di un chiosco che si trova a combattere contro la Mafia (il cui ruolo del mafioso, per ironia della sorte, andò al futuro commissario Cattani Michele Placido) in Un uomo in ginocchio, e tanti altri.
Ma è appunto nello spaghetti western che si trovano le migliori performance del nostro.
Tra i tantissimi titoli, a parte i due Ringo, sono degni sicuramente da essere menzionati: I giorni dell’ira del 1967 di Tonino Valerii, in cui divide lo schermo assieme ad un’altra icona assoluta del genere: Lee Van Cleef. Uno spaghetti western psicologico con ambizioni etiche in cui un Giuliano Gemma interpreta Scott Mary, uno stalliere debole vittima di dileggio e che troverà proprio in Van Cleef il suo mentore che lo istruirà per diventare un forte pistolero; e che vedrà poi i due contrapporsi nello scontro finale.
Un dollaro bucato fu il terzo western interpretato da Gemma nel 1965, stavolta alla regia di Giorgio Ferroni, un film ambientato durante la guerra di Secessione e che ebbe un grande successo e che fu molto venduto all’estero.
Vi è poi I lunghi giorni della vendetta, incursione atipica di Florestano Vancini, per un western spaghetti altrettanto atipico del 1967, in cui Gemma interpreta Ted Barnett (tra l’altro con una lunga ed inedita barba) imprigionato ingiustamente e che riesce ad evadere per vendicarsi di una banda di trafficanti di armi che gli ha ucciso il padre. Il film ha molte sequenze da antologia, come quella dell’impiccagione finale.
Vi è poi da ricordare …E per tetto un cielo di stelle di Giulio Petroni del 1968 che prende ispirazione addirittura da “Uomini e topi” del romanziere americano John Steinbeck. Questa volta Gemma recita accanto a Mario Adorf, e i due per tutto il film sono inseguiti da una banda di pistoleri alla ricerca di un bottino. Il film per certi versi anticipa quelli della coppia Spencer-Hill, sia per le caratteristiche fisiche dei due protagonisti (uno furbastro e l’altro grande e grosso), sia per il tono leggermente più scanzonato del film.
Altra figura chiave del genere è il già citato Lee Van Cleef: leggendario attore dagli occhi scuri e penetranti e che vanta apparizioni sia in western canonici americani che nei western spaghetti italiani, oltre al vanto di aver interpretato uno dei protagonisti in Per qualche dollaro in più ed il cattivo Il buono, il brutto e il cattivo. E proprio il ruolo del cattivo lo perseguiterà per tutta la sua carriera, avendo egli interpretato per lo più personaggi negativi (al contrario di Gemma che non ha quasi mai interpretato il ruolo del cattivo).
Uno dei film chiave con Van Cleef è La resa dei conti del 1967 di Sergio Sollima (padre dell’oggi più famoso Stefano) in cui interpreta il bounty killer Corbett il quale viene ingaggiato per catturare il giovane messicano Cuchillo Sanchez (interpretato da uno straordinario Tomas Milian), il quale è accusato di aver stuprato e ucciso una dodicenne. Il film è molto importante, oltre che per le straordinarie interpretazioni dei due attori-icona, anche per il fatto che il regista tenta di dare una lettura del genere in chiave “anarchica”. Ci sono molti omaggi al cinema di Sergio Leone, il quale – tra l’altro – ebbe l’idea del titolo (il personaggio di Cuchillo sarà poi ripreso dallo stesso Sollima l’anno successivo nel buon Corri uomo corri).
Van Cleef interpretò poi due volte l’eroe Sabata in Ehi amico. C’è Sabata. Hai chiuso! e È tornato Sabata… hai chiuso un’altra volta! entrambi di Gianfranco Parolini ed entrambi del 1971. Il western italiano stavolta assume toni picareschi e Van Cleef (che è vestito con uno smoking sotto la mantella nera) prende in prestito anche trovate dai film di 007. Il personaggio sarà poi ripreso – com’era consuetudine all’epoca –in altri film ed interpretato da altri attori tipo in Arriva Sabata! di Tulio Demicheli in cui il personaggio è interpretato da Anthony Steffen.
Altro film degno di menzione è Il grande duello di Giancarlo Santi (uno dei vari aiuto-registi di Sergio Leone) del 1973 in cui questa volta Van Cleef interpreta – in uno dei suoi pochi ruoli “positivi” – uno sceriffo che cerca di proteggere un ragazzo da una banda di cacciatori di taglie. Il film ebbe un grande successo di pubblico ed il tema musicale sarà poi ripreso quarant’anni dopo dal solito Tarantino per il suo Kill Bill vol. 1.
Ultimo film da citare è il “curioso” Diamante Lobo sempre di Parolini: uno degli ultimi spaghetti western, girato nel 1976. Questa volta Van Cleef interpreta addirittura due personaggi, che nel film sono due fratelli: il primo è Padre John (in cui Van Cleef sfoggia un’originale capigliatura castana e lunga) che viene ucciso da alcuni banditi; il secondo è Lewis che tenterà di vendicare il fratello.
Oltre il personaggio di Sabata interpretato da Van Cleef, ce ne sono altri molto simili, come ad esempio Sartana: un abile pistolero vestito elegantemente di nero (con cravatta annessa) in contrasto con il suo cavallo bianco ed interpretato per la prima volta da Gianni Garko in 1000 dollari sul nero di Alberto Cardone del 1966. Il personaggio verrà poi riproposto in tantissime pellicole dai titoli più improbabili (ed interpretato da tantissimi attori), come ad esempio: …Se incontri Sartana prega per la tua morte (1968) di Gianfranco Parolini, il buon Sono Sartana il vostro becchino (1969), Buon funerale amigos!… paga Sartana (1970), Una nuvola di polvere… un grido di morte… arriva Sartana (1970) tutti di Giuliano Carnimeo, Django sfida Sartana (1970) di Pasquale Squitieri…
Altro personaggio protagonista di tanti film è Spirito Santo, vestito invece di bianco con una palombella addestrata sulla spalla. Da citare: …e lo chiamarono Spirito Santo (1971) e Spirito Santo e le 5 magnifiche canaglie (1972) entrambi di Roberto Mauri.
C’è poi Alleluja interpretato da George Hilton in Testa t’ammazzo, croce… sei morto. Mi chiamano Alleluja (1971) ancora di Giuliano Carnimeo, come anche Il West ti va stretto, amico… è arrivato Alleluja del 1972, o l’incrocio Alleluja e Sartana figli di… Dio (1972) stavolta di Mario Siciliano.
Un film molto importante (oltre ad essere molto bello), del 1967, è Faccia a faccia del già citato Sollima. Il film è un gigionesco duello recitativo fra Gian Maria Volontè e Tomas Milian. Volontè interpreta Brad Fletcher, un tranquillo e pacifico professore che, a causa di una tubercolosi, è costretto a trasferirsi nell’ardente Texas per potersi curare. Milian interpreta Solomon Bennet, detto Beauregard, un bandito che sta per essere portato in prgione da una diligenza. Quest’ultima fa una sosta nella locanda dove si trova il professore, e Bereuegard, con astuzia, riesce a prenderlo come ostaggio e portarlo con sé. Il professore ben presto resterà affascinato dal fuorilegge Bennet ed il suo “Branco Selvaggio” in cui egli non vede solo dei banditi ma lo strumento armato di un gruppo di ribelli che tenta di opporsi al “sistema”. Ben presto Fletcher imparerà ad usare le armi e si trasformerà in un terribile criminale. Ma la metamorfosi è doppia: Beauregard, grazie alla vicinanza all’intellettuale, scoprirà una forte coscienza e moralità dentro di se che lo porteranno ad una vera e propria redenzione e – per forza di cose – ad uccidere il suo “doppio”, ribaltando – in questo modo – tutto il sistema di codici del western italiano.
Faccia a faccia è probabilmente uno dei western spaghetti più apertamente politici, sceneggiato dal regista assieme a Sergio Donati, che riflette su molti temi fra cui quello del ruolo dell’intellettuale all’interno del processo rivoluzionario (con echi anche ad Antonio Gramsci), il tema della “presa di coscienza”, al cambiamento dell’uomo e dal diverso modo di reagire riguardo un medesimo problema.
Emblematica la scena in cui Volontè, impugnando una pistola per la prima volta in vita sua, esclama: «Certo che stringendola si ha come un’assurda sensazione di potenza con questo modo così naturale di aderire alla mano!».
Il film è importante anche dal punto di vista “storico” in quanto contribuì a formare un filone importante all’interno del genere che è quello dello spaghetti western politico/storico i cui film sono per la maggior parte ambientati ai tempi della rivoluzione messicana, altresì detti, infatti, “Zapata western”. Tale filone è la degna “evoluzione” del genere il quale sente ormai la necessità di sperimentare nuovi orizzonti anche geografici.
Oltre i già citati Vamos a matar compañeros, Il mercenario, e Faccia a faccia è da segnalare Tepepa (1968) di Giulio Petroni con l’inedita coppia Tomas Milian (nella parte del rivoluzionario Tepepa) /Orson Welles (che interpreta il crudele ed ineffabile colonnello Cascorro). Da alcuni definito anche “western terzomondista” Tepepa è un film iridescènte, colmo di allusioni sessantottine ed anticolonialiste. Formalmente spettacolare, grazie soprattutto alla magnifica fotografia “oro” di Francisco Marí, ad una straordinaria colonna sonora del solito Morricone e dalla durata “spropositata” per il genere (a parte ovviamente i film di Leone): 136 minuti. Emblematico è monologo di Tepepa sulla “rivoluzione tradita” e sul popolo che si sente usato, e la consapevolezza che il potere finisce sempre per corrompere chi lo pratica.
Altro film importante di questo sotto-genere è sicuramente Quién sabe? del 1966 con la regia di Damiamo Damiani. Nel film, ambientato nel 1917 durante la rivoluzione messicana, è presente un trio d’attori molto bravi e molto “In parte”: Lou Castel, che interpreta l’americano Bill Tate un sicario americano pagato dal governo di Città del Messico per uccidere il generale ribelle Elías, ma che finge di essere ricercato, il quale diventa amico (dopo il famoso e strepitoso incipit del film dell’assalto al treno) di El Chuncho, interpretato da un sempre ottimo Gian Maria Volontè, che è a capo di una banda di rivoluzionari messicani e che ruba le armi dell’esercito per venderle ai ribelli del generale Elias. Il terzo attore è Klaus Kinski che interpreta El Santo, fratello del Chuncho alle prese con i suoi soliti deliri attoriali-mistici di matrice herzoghiana. Tate, il cui compito è quello di uccidere il generale, tenterà di corrompere il Chuncho. I due si salveranno reciprocamente la vita. La battuta finale di Gian Maria Volontè («Non comprare pane! Comprati la dinamite!») è entrata di diritto nella Storia del Cinema. Damiani non nasconde di essere ideologicamente dalla parte di El Chuncho, e – come scrive Mereghetti – «raccontandone la presa di coscienza, sa fondere l’epica con il populismo, l’efficacia spettacolare con spunti terzomondisti» in un film che sembra riuscire a fondere bene il western leoniano con quello di Peckinpah (ma anche con Viva Zapata! di Elia Kazan).
Nel film di Damiani i personaggi non sono più indifferenti amorali e persone incapaci di pulsioni ideali complesse (lezione che recepirà anche Sergio Leone per il suo Giù la testa) bensì personaggi dotati di un proprio codice morale.
Un film importante da citare, in quanto “anomalo” all’interno del genere, è Mátalo! di Cesare Canevari del 1970. Il film è molto violento e racconta di un fuorilegge chiamato Burt (interpretato da Corrado Pani) che, dopo essere stato ferito, si ritrova in una città fantasma dove incontra una donna e un giovane australiano (Lou Castel) il quale, per difendersi, non usa le consuetudinarie pistole, bensì un boomerang. Il film è caratterizzato da pochissimi dialoghi (la prima battuta del film viene pronunciata dopo 9 minuti), da un accentuato uso di musiche elettroniche e psichedeliche (affidate a Mario Migliardi) e da nude ambientazioni, il tutto immerso in un’atmosfera visionaria e crepuscolare che sfocia nel fantastico. Un film mesmerizzante che osa molto sul piano tecnico e che riesce ad assumere caratteristiche quasi lisergiche.
Altro film importante è I quattro dell’Apocalisse (1975), rara incursione di Lucio Fulci nel western italiano quando il genere era ormai sgoccioli. Il film racconta di Stubby Preston (interpretato da Fabio Testi), un baro di professione che giunge nella cittadina di Salt Flat. Dopo un massacro che avviene la sera stessa il suo arrivo, Stubby fugge dalla città in compagnia del nero Bud, di una prostituta incinta e di Clem l’ubriacone. Nel loro viaggio il gruppo incontra un messicano, lo psicopatico Chaco (interpretato da un Tomas Milian che con il suo look anticipa di 30 anni quelli di Johnny Depp ne I pirati dei Caraibi, il quale sostenne di essersi ispirato – per la sua interpretazione – a Charles Manson), che si unisce a loro, dicendo di essere stato depredato dai banditi. Presto si scopre, però, che Chaco è inseguito da alcuni uomini di legge. Il film è un western molto strano, onirico quasi, con personaggi estranei al western e che in definitiva con il genere ha poco a che vedere a parte la messa in scena. Cosa che ci si doveva aspettare dall’Autore Lucio Fulci che non a caso è stato definito – dal libro di Albiero Paolo – “ Il terrorista di generi”.
Altro film importante è Keoma del 1976, di Enzo G. Castellari, altro nome di lustro del cinema di genere italiano. Il protagonista del film è il mezzosangue Keoma, interpretato dall’azzeccato Franco Nero con un look cristologico e fumettistico (con tanto di capelli lunghi) molto particolare, il quale torna al suo paese natio. Qui scopre che i suoi tre fratellastri razzisti perpetuano angherie nei confronti della popolazione locale. Il padre di Keoma ed un suo vecchio amico sono però dalla sua parte nel tentare di ristabilire l’ordine. Nel film sono presenti molte scene oniriche (tra cui Keoma che parla con la Morte) e flashback che in un certo qual modo riescono a destabilizzare la scansione temporale e di conseguenza lo spettatore stesso; tutto ciò evitando di cadere nella facile trappola del grottesco. Il film ha, fra i suoi estimatori, il regista Sam Raimi.
Altro film da citare è l’altro “tardivo” western Mannaja del 1977 di Sergio Martino e con Maurizio Merli nella parte del protagonista che da il titolo al film e che deve il nome alla sua abilità di servirsi delle mannaje, appunto. Mannaja è un cowboy che, come Keoma, torna al suo paese natale per tentare di vendicarsi di Ed McGowan (interpretato da un inedito Philippe Leroy), l’uomo che anni prima ha ucciso suo padre. Il film ha dei toni cupi e crepuscolari (forse proprio per la auto-consapevolezza che il genere sia ormai sul viale del tramonto) in uno scenario spettrale e surreale, caratterizzato da fango e nebbia. Il film è caratterizzato anche da alcune scene di violenza abbastanza forti, come quella iniziale in cui la mannaja del protagonista stacca di netto la mano di Donald O’Brien nei panni di Burt Craven.
A questo punto bisogna fare un salto indietro, e precisamente al 1967, l’anno in cui compare nelle sale lo spaghetti western (ancora) “serio” Dio perdona… io no! di Giuseppe Colizzi (registra prematuramente scomparso, qui al suo esordio dietro la macchina da presa), in cui due amici/nemici (il pistolero Will ed il rivale Hearp) si trovano a lavorare insieme – loro malgrado – per cercare ti trovare il furfante Bill S. Antonio e recuperare il bottino dalla rapina di un treno. Il film, «un noir travestito da western» come lo giudica Paolo Mereghetti, ottenne un successo straordinario ma non risulta tanto importante in sé, quanto piuttosto per il fatto di essere il film d’esordio della coppia Spencer-Hill e che cambierà il western italiano, che nel film in questione era ancora lontano dalle aperture farsesche ed il tono burlesco che caratterizzeranno la coppia in futuro.
L’uno veneziano (Mario Girotti in arte Terence Hill) e l’altro napoletano (Carlo Pedersoli alias Bud Spencer, tra l’altro ex nuotatore olimpionico), formano una coppia perfettamente assortita che si rivelerà una ubertòsa miniera d’oro per il cinema italiano negli anni a venire.
I due in verità si erano già incrociati – ancora giovanissimi – in Vacanze col gangster (1951) di Dino Risi, ma in seguito la coppia si è formata per puro caso: inizialmente per Dio perdona… io no!, assieme a Spencer, fu scritturato Peter Martell il quale nei primi giorni di ripresa si ruppe un piede. Non potendo Colizzi interrompere le riprese, scritturò Terence Hill, il cui personaggio venne ricalcato su quello di Clint Eastwood.
Colizzi dirigerà la coppia in altri due film: I quattro dell’Ave Maria del 1968 in cui compaiono le prime, timide, scazzottate e La collina degli stivali (1969) ambientato in un circo e che assume il valore di vero e proprio film di transizione verso lo spartiacque rappresentato da Lo chiamavano Trinità del 1970 di Enzo Barboni in arte E.B. Clucher.
Nel film in questione Terence Hill interpreta Trinità («la mano sinistra del diavolo») un bounty killer mangiatore di fagioli che giunge in un paese del Sud Ovest dove scopre che il fratello, il ladro di cavalli Bambino (Spencer) ha preso il posto del vero sceriffo. I due ben presto si trovano a dover difendere una comunità di Mormoni minacciata dall’ufficiale opportunista Harrison che vuole impadronirsi della vallata per far pascolare la sua mandria di cavalli.
Entrata nella storia del cinema italiano la scena iniziale in cui Hill vaga nel deserto sdraiato sul suo travoy, una slitta indiana, trainato dal suo cavallo con in sottofondo il bellissimo tema scritto per l’occasione dall’altra autorità delle musiche al cinema oltre Morricone, che è Franco Micalizzi.
Clucher trasforma i due in maschere dalla commedia avventurosa con ruoli pressoché fissi: Terence Hill è il bello, biondo e con gli occhi chiari, dal fisico prestante e atletico, svelto di mano, furbo ed anche buono. Bud Spencer è il classico “gigante buono” (tutt’altro che tonto) dal carattere burbero ma anch’egli pronto ad intervenire in difesa dei più deboli. Una sorta di Stan Laurel e Oliver Hardy traghettati in un West da operetta, e Clucher li fa doppiare dagli azzeccati Pino Locchi e Glauco Onorato, che rappresenteranno – anche negli anni a seguire – le due voci ufficiali della coppia.
Il film fu il secondo incasso nella stagione 1970-71 (preceduto solo da Per grazia ricevuta di Nino Manfredi) e negli anni ha avuto infiniti e sempre seguitissimi passaggi televisivi.
Ma fu con il seguito (mediocre) del film, Continuavano a chiamarlo Trinità dell’anno successivo e del medesimo regista, che la coppia farà registrare quello che ancora oggi è il quarto maggior incasso del cinema italiano di sempre: più di 14 milioni di spettatori paganti al cinema e oltre 5 miliardi di incasso solo in Italia.
I due film daranno avvio ad un altro sotto-genere, quello che molti chiamano il “ceffoni western”, in cui alle sparatorie sono sostituiti, appunto, i ceffoni e le scazzottate con la sparizione quasi completa del sangue.
Bud Spencer e Terence Hill faranno proseguire le loro singole carriere parallelamente in western “seri”: Spencer con il bel Un esercito di 5 uomini (1969) di Italo Zingarelli, Al di là della legge (1968) di Giorgio Stegani, al fianco di Jack Palance in Si può fare… amigo (1972) di Maurizio Lucidi ed, e Hill con La collera del vento (1970) di Mario Camus, …E poi lo chiamarono il Magnifico (1972) di E.B. Clucher e con Gregory Walcott al posto di Spencer, accanto ad Henry Fonda nel buon Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii (supervisionato da Sergio Leone, che fu anche fra gli autori del soggetto), Un genio, due compari, un pollo (1975) di Damiano Damiani.
La coppia invece si re-inventerà in altri generi e filoni con la stessa fortuna avuta nel western.
I tentativi di imitazione sono però stati tanti: i film con Michael Coby (l’italiano Antonio Cantafora) e Paul Smith, Carambola (1974) e Carambola, filotto… tutti in buca (1975) entrambi di Ferdinando Baldi ed ispirati ai due Trinità, rasentano il plagio in quanto i due sono praticamente i sosia di Spencer ed Hill. I film sono invece qualitativamente molto inferiori (per non dire brutti!).
Antonio Cantafora comparse anche in un film dal titolo Un bounty killer a Trinità del 1972 diretto da Aristide Massaccesi in arte Joe D’Amato.
I cinema italiani furono poi invasi da tanti film con improbabili titoli evocativi, tra cui: Jesse & Lester – Due fratelli in un posto chiamato Trinità del 1972 diretto da Renzo Genta, Lo chiamavano Verità sempre del 1972 di Luigi Perelli, Era Sam Wallash!… Lo chiamano… E così sia! di Demofilo Fidani, Trinità e Sartana figli di…, e tanti altri…
Lo stesso Giuseppe Colizzi riproporrà la stessa coppia in film non western con due attori americani: Keith Carradine e Tom Skerrit, simili fisicamente ai due e con gli stessi doppiatori Colizzi e Onorato nel bello e dimenticato Arrivano Joe e Margherito del 1974, con una simpatica cornice avventuroso-marinaresca e scandito anch’esso a suon di simpatiche scazzottate.
Mentre Bud Spencer reciterà in coppia con lo stesso Giuliano Gemma (che sostituisce – bisogna dirlo – degnamente Hill) in un film di E.B. Clucher del 1973: Anche gli angeli mangiano i fagioli. Per ironia della sorte, l’anno successivo, Gemma reciterà accanto ad un sosia di Spencer: Ricky Bruch.
In ogni caso Lo chiamavano Trinità rappresenta in film-congiuntura tra lo spaghetti western e la sua rivisitazione in chiave avventuroso-umoristica. Ed allo stesso tempo l’avvio della (neanche tanto) lenta morte dello spaghetti western. Un film fulgido e maledetto al tempo stesso, che a causa delle risate ha portato alla morte del genere. C’è anche chi sostiene che Quentin Tarantino abbia piazzato la colonna sonora di Lo chiamavano Trinità nel finale del suo Django Unchained proprio per ricalcare la “fine” del genere. E molto probabilmente è davvero così.
Nel 1975 Umberto Lenzi girò Il giustiziere sfida la città, uno dei migliori poliziotteschi italiani di tutti i tempi.
Il film in questione si apre, sulle note di Franco Micalizzi, con Tomas Milian (il cui nome del protagonista è Rambo, ben 7 anni prima di Stallone) ex-bandito ora ravveduto in sella alla sua motocicletta per le strade di Milano. C’è che ci ha visto nella motocicletta la sostituzione del cavallo, e tramite la quale Tomas Milian (forse l’unico attore icona dei due generi in questione) esce dal western e fa il suo ingresso nella metropoli.
Alessio Cacciapuoti