Otto piccoli americani
La netta percezione che qualcosa di profondamente differente covasse sotto la cenere, nell’attesa di The Hateful Eight, scaturiva già dal titolo. Il riferimento non era solo al numero di personaggi coinvolti nel film, ma alludeva anche al numero dei lungometraggi firmati da Quentin Tarantino, non contando episodi di film (Four Rooms, Grindhouse – A prova di morte), o mediometraggi d’esordio (My Best Friend’s Birthday). Aspettativa perfettamente ripagata: perché The Hateful Height, se non l’opera “della maturità” tarantiniana – si era già detto e scritto più o meno la stessa cosa ai tempi di Jackie Brown, nel 1997 – è senz’altro quella della consapevolezza. Una sorta di presa d’atto che il cinema non può essere solo l’estremo godimento, peraltro reversibile da autore a spettatore e viceversa, di smontare e rimontare il giocattolo ma pure affrontare tematiche che solo pochi autori, oggi in particolare, riescono a prendere di petto. The Hateful Eight è infatti un’opera cinematografica a carattere politico – come ammesso più volte dallo stesso Tarantino – in grado di funzionare a molteplici livelli. Un viaggio nell’abisso delle viscere più profonde degli Stati Uniti d’America ma anche un saggio estremamente raffinato sulla mendacità della macchina cinema e in generale sull’inganno insito nella visione.
The Hateful Eight è dunque un film “politico” perché affonda senza esitare il metaforico coltello nella piaga della diversità di fondo di una nazione troppo grande e variegata per non essere anche sconvolta da differenze assolutamente inconciliabili. Se è vero che l’ambientazione storica risale a qualche anno dopo il termine della Guerra di Secessione – diciamo 1870 o giù di lì – Tarantino astrae superbamente le ridotte location del suo film, ambientando il tutto in non luoghi di enorme portata simbolica e perciò atemporali, immergendoli nel bianco di una neve tutt’altro che purificatrice. Gli otto personaggi sono altrettante anime, maschere che si agitano nel lato peggiore – o forse migliore, chi lo sa: l’ambiguità di giudizio è sovrana – dell’America di frontiera. Nella prima parte di The Hateful Eight lo spettatore fa, semplicemente, la loro conoscenza. Il viaggio verso il punto d’arrivo, mentre la tormenta s’inasprisce. Una cesura, a livello narrativo, molto netta, come accadeva tempo addietro in quel godibilissimo pastiche horror-gangsteristico dal titolo Dal tramonto all’alba (1996). Robert Rodriguez dirigeva, ma Quentin Tarantino scriveva. E ciò si avvertiva eccome. Nessun morto “live” in The Hateful Eight fino a metà film, poi un’orgia di sangue e raccapriccio per “ammirare” la bestia presente in ognuno degli otto. Riflettente qualcosa di ben più ampio. Chi non recita una parte in quello che nel frattempo è divenuto una specie di kammerspiel ad unica ambientazione (l’emporio di Minnie, mèta ultima del viaggio) sarà il primo a lasciarci brutalmente le penne. Gli altri la tireranno un po’ più a lungo. Ma è la sublime cattiveria di Agatha Christie ad ispirare, stavolta, il lato sadico-ludico del cinema tarantiniano. Tenuto peraltro sotto ferreo controllo, a differenza del pur altrettanto ambizioso Django Unchained. Qualsiasi concetto di elementare giustizia muore sotto i colpi della cosiddetta legge del capitale. E per l’occasione, salto di qualità che più politico non è possibile, sono gli stessi esseri umani – quasi tutti – ad avere un proprio corrispettivo in dollari. Vivi o morti. Con quest’ultima soluzione di gran lunga preferibile, in un film dove il classico colpo di scena diviene elemento fisiologico della menzogna continuativamente profferita.
A svelare parte dell’inganno ecco il narratore, nel secondo tempo canonico del cinema che fu. La voce di Tarantino stesso, almeno nella versione originale di un lungometraggio della durata di oltre tre ore, girato in 70mm e, prevalentemente, con una sola location al chiuso. Quentin al massimo della provocazione. Gli scarti temporali servono a comprendere in via definitiva ciò che era intuibile, ma anche a svelare nuovi particolari. Il punto di vista è tutto. E nessuno sguardo può seguire compiutamente i movimenti di otto personaggi. Teoria cinematografica e politica antropologica. Un branco di jene – tanto per citare di passaggio un altro cult tarantiniano – chiuso nel medesimo luogo. Allo spettatore il piacevole compito di farsi aggredire dalle sorprese e dalla messa in scena al contempo radicale e raffinata. E alla fine c’entra pure Abramo Lincoln, sempiterno fantasma di un’utopia ormai dissoltasi in modo definitivo nell’epitaffio finale nei confronti di un’America, suddivisa in troppi Stati Uniti, che non è mai esistita.
Quentin Tarantino dixit.
Daniele De Angelis