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Félicité

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VOTO: 6.5

Un lungo percorso di crescita

Non ha fatto parlare spesso di sé un cineasta come il senegalese – ma francese di adozione – Alain Gomis. I suoi precedenti lungometraggi, quali, ad esempio, Aujourd’hui e L’afrance hanno – stranamente! – messo d’accordo, in passato, sia pubblico che critica sul fatto che si trattasse di prodotti che molto promettono, rivelando, in seguito, ben poca sostanza. Prodotti di cui, poco tempo dopo la visione, ci si è quasi del tutto dimenticati. Malgrado alcuni elementi che convincono decisamente poco, però, non si può fare lo stesso discorso per Félicité, il suo ultimo lungometraggio, presentato in concorso alla 67° edizione del Festival di Berlino. La storia messa in scena è una storia apparentemente come tante. Félicité è una giovane ragazza madre dalle straordinarie doti canore che, al fine di garantire al figlio adolescente una vita dignitosa, ogni sera si esibisce in un locale della cittadina in cui vive, nel cuore del Congo. La situazione si fa complicata il giorno in cui il ragazzo ha un incidente con la motocicletta e rischia di perdere una gamba. L’operazione per salvarlo è assai costosa, così Félicité sarà costretta a trovare le più disparate soluzioni, al fine di garantire l’intervento a suo figlio. Ad una prima lettura della sinossi, l’idea di base sembrerebbe suggerire qualcosa simile ai film dei fratelli Dardenne. Eppure, dopo aver adottato una certa linea iniziale, ecco che il lungometraggio di Gomis si concentra in particolare sull’interiorità della protagonista stessa, sui suoi cambiamenti, sulla sua crescita interiore e, soprattutto, sulla sua presa di coscienza circa il fatto che, nella vita, bisogna anche saper accettare un aiuto da parte di chi ci è vicino.
Il tutto viene realizzato con un copioso uso di camera a spalla, per una messa in scena apparentemente priva di particolari virtuosismi registici, che si alterna a momenti in cui la musica ed i colori di un popolo fanno da protagonisti assoluti, facendoci dimenticare, per un attimo, le sventure della protagonista stessa. Sono queste le scene in cui Felicité si esibisce al locale e, di volta in volta, intensi suoi primi piani ci mostrano il suo stato d’animo. Nel raccontare il percorso della protagonista, ampio spazio è dedicato – in modo non del tutto riuscito, a dire il vero – anche alla dimensione onirica. Sono questi i momenti in cui Felicité viene mostrata nell’atto di camminare di notte dentro un bosco, per poi immergersi in un lago e sentirsi improvvisamente più serena, quasi fosse tornata nella placenta materna. Particolarmente riuscito, inoltre, il parallelismo tra la donna ed il proprio figlio a metà della pellicola: dopo l’amputazione della gamba di quest’ultimo, ecco che la madre intraprende un nuovo percorso interiore che la fa abbandonare ciò che era prima, tagliandosi in modo emblematico i capelli.
Il vero problema di un lungometraggio come Félicité è fondamentalmente uno script piuttosto sfilacciato, che, dopo aver adottato una certa linea iniziale, cambia quasi repentinamente registro, facendo sì che il film sia spaccato in due senza una logica apparente. Molti elementi, inoltre, vengono tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso (vedi la zebra incontrata dalla protagonista durante i sogni), rivelando sì buoni intenti da parte del regista, ma anche un’importante dose di incertezza, che, di fatto, il suo peso ce l’ha eccome. Nulla di veramente riuscito, in pratica. Eppure, vuoi per le ambientazioni, vuoi per la musica calda e coinvolgente, al termine della visione questo ultimo lungometraggio di Gomis non lascia fortunatamente del tutto scontenti.

Marina Pavido

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