Nel vuoto incantato
Al di là degli indubbi meriti artistici, c’è un titolo onorifico di cui Favolacce avrebbe di sicuro fatto volentieri a meno: quello del film italiano più penalizzato dall’epidemia di covid che ha colpito così duramente (anche) il nostro paese. Ed è un vero peccato, poiché il film dei fratelli D’Innocenzo avrebbe certo attirato l’attenzione del pubblico in sala non solo per i numerosi premi raccolti dentro e fuori i nostri confini. Non certo a caso, verrebbe da dire. Perché anche il prestigioso alloro ottenuto alla Berlinale 2020 – ultimo festival di rilievo svoltosi prima dell’emergenza sanitaria mondiale – segnala un prodotto di autentico livello internazionale, pur rimanendo saldamento ancorato all’universo di riferimento dei D’Innocenzo.
Periferia (romana) allora. Intesa sia in senso geografico che morale. Un mondo a parte come nell’apprezzato esordio La terra dell’Abbastanza. Mosso dalle proprie dinamiche esistenziali e da regole interne alle quali è impossibile sottrarsi. Lo sanno bene i personaggi coinvolti in questo film profondamente anti-narrativo, perlomeno in senso tradizionale. Frammenti di racconto. Imperativi di sopravvivenza, famiglie largamente disfunzionali, infanzie allo stato brado. Poi depressioni più o meno latenti, frustrazioni sessuali, istinti che attendono il momento giusto per deflagrare. Insomma un universo senza speranza, immerso in un pessimismo che Giacomo Leopardi non esiterebbe a definire cosmico, non privo di quei tocchi di amara ironia che solamente chi conosce bene determinati ambienti può descrivere con esattezza. Sarebbe lecito pensare, da queste scarne constatazioni, ad un lungometraggio estremamente realistico, quasi “neo-pasoliniano”, se ci passate il termine. Non è affatto così. La carta vincente di Favolacce risiede proprio nel mettere a confronto due opposti. Lo squallore di ciò che viene visto e raccontato, sia pur in modo originale ed anomalo, è messo in palese contrapposizione con una forma incantata e sospesa, intrisa di una bellezza capace di creare quella magia tipica appunto delle fiabe; però declinate, come suggerisce il titolo del film, in una chiave del tutto priva di quel retrogusto morale di cui si nutrono le storie che hanno composto l’infanzia di tutti. Da favole a favolacce.
Lo scarto di ambizione dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo risulta dunque più che mai evidente, in questa opera seconda. E la percezione di una possibile fuga da un microcosmo esecrabile resta sempre presente per l’intera durata del film. Ma trattasi di un anelito purtroppo soffocato in culla (come dimostra, in senso non metaforico una storia ivi raccontata), un sogno impossibile destinato a rimanere tale per ogni volto immortalato da un’opera che può contare sulle classiche “facce giuste”. Adulti – capitanati dal solito, eccellente, Elio Germano – e soprattutto bambini e adolescenti, condannati senza colpa ad un girone infernale fatto di rancori e gelosie sommersi, dove comandano pulsioni bestiali improntate in prevalenza sulla prevaricazione del forte sul debole. E dove i più piccoli, secondo logica, non possono avere scampo.
Siamo dunque dalle parti del film da non perdere, a prima vista apparecchiato per suscitare discussioni e dibattiti a non finire. Magari polemiche sul fatto che sia davvero questa l’immagine di un’Italia “da esportazione”. E invece si tratta di cinema capace di volare alto, ad un livello ben superiore persino rispetto all’importanza di ciò che, con estremo coraggio, mette in scena. L’unica domanda legittima che può suscitare un’opera come Favolacce è, per così dire, un dubbio in divenire: se i fratelli D’Innocenzo – ovviamente, da autori a tutto tondo quali sono, anche sceneggiatori del film – alla tenera età di anni trentadue filosofeggiano con cotanta disinvoltura, che ne sarà del loro modus operandi cinematografico tra due o tre decadi? Chi vivrà, vedrà. Con sovrana curiosità.
Daniele De Angelis