Risorse umane, a volte ritornano
Si apre la 57° edizione della Quinzaine des cinéastes con un omaggio al regista Laurent Cantet, scomparso l’anno scorso. Enzo, il film cui stava lavorando, presentato in apertura della sezione alternativa di Cannes, porta la dicitura: «Un film di Laurent Cantet diretto da Robin Campillo». Il secondo, da sempre uno stretto collaboratore del primo, di cui ha curato il montaggio di sei film ed è stato cosceneggiatore per cinque opere, ha preso le redini del progetto cominciando a lavorarci con il regista già malato. Il risultato, imperfetto come vedremo, risente forse di questa genesi anomala e di questo trasferimento di testimone.
Enzo comincia con un gioco brillante di elusione delle attese spettatoriali. Siamo in un cantiere edile, il film segue le chiacchiere di alcuni muratori, i loro apprezzamenti goliardici sulla foto di una ragazza nuda che uno di loro mostra dal suo cellulare. Tutto ci porta a pensare a un classico film sociale sulla classe operaia, su un mondo degli ultimi, i muratori quasi tutti stranieri, che vivono tra espressioni da bar, in un’atmosfera sessista. Da vedere con sguardo bonario, nello spirito del «Se qualcuno ti tocca il sedere fai finta di niente» della famosa frase di Cheyenne di C’era una volta il West. Il filone d’oltralpe di questo genere di film sociali è molto nutrito, e poi abbiamo appena letto sui titoli di testa che i fratelli Dardenne sono tra i co-produttori. Ma il film prende un’altra piega concentrandosi sulla figura di Enzo, sedicenne, uno di quei muratori, ripreso dal capo perché improduttivo. Si scopre ben presto che il ragazzo è il rampollo di una ricca famiglia italo-francese che vive in una villa lussuosa dall’architettura eclettica, posta in cima a una collina, nel Sud della Francia. Enzo vuole fare il muratore seguendo un suo spirito di ingenua nobiltà, vuole costruire muri, edifici imperituri eretti dall’uomo che possano sopravvivere a uno tsunami, a ogni avversità naturale. Le mura, ricordiamo, sono anche un concetto espresso nel film più famoso di Cantet, La classe – Entre les murs, a indicare un ambiente circoscritto e asfittico come quello scolastico. È evidente che il ragazzo segua anche uno spirito ribelle, un rifiuto di quella mentalità benestante, pur aperta, dei genitori, un rifiuto del pesante sistema scolastico meritocratico francese, in cui invece il fratello Nathan è pienamente inserito. E lo spirito anarchico di Enzo lo porta però anche a eludere quelle leggi dell’efficientismo capitalista che devono rispettare i lavoratori. Torna quindi il Cantet di Risorse umane nel delineare i rapporti di classe sempre più fluidi della società attuale, mettendo in relazione i primi e gli ultimi, rendendo intercambiabili i ruoli. Ma il sistema di classe esiste, eccome. Il cantiere edile in cui lavorano i muratori, tra i quali Enzo, serve a erigere un’altra villa lussuosa con piscina, che si ergerà in quella zona di dislivelli, proprio come quella di Enzo. I poveri costruiscono le dimore lussuose per i ricchi.
Enzo stringe amicizia con due colleghi muratori ucraini, Vlad e Miroslav, soprattutto con il primo che, a differenza del secondo, non vuole tornare in patria per arruolarsi nella guerra. Miroslav si appresta a partire per il fronte. Non ne è obbligato, visto che ormai risiede in Francia da tempo. Ha deciso di sua volontà di servire la patria che è stata aggredita. Per Vlad Enzo comincia anche a provare un’attrazione fisica e tenta degli approcci che però lui rifiuta. C’è una forte amicizia virile tra i due, e una complicità, in quel contesto, come si diceva, machista, ma per l’immigrato ucraino rimane tale. Il personaggio di Enzo a questo punto si carica di un’ulteriore carica di ribellione, nel campo dei ruoli sessuali. Il ragazzo aveva anche una fidanzatina nel suo ambiente scolastico. Ma questa poi scompare in un buco di sceneggiatura. Ancora Cantet e Campillo delineano il tutto in un mondo post-pasoliniano, dove si intrecciano i ruoli di genere con quelli di classe, senza schemi precostituiti. Il borghese, che vuole essere proletario, Enzo, tenta un approccio sessuale con Vlad esattamente come quello del rampollo della famiglia altolocata di Teorema nei confronti dell’ospite. In questo caso però senza successo. Molto forte in Enzo, anche la derivazione da Chiamami col tuo nome, a partire da quella piscina, snodo di tante situazioni, così “guadagniniana”. Quella dimora sembra uno spazio aperto, una villa su collina, con quella piscina costruita, secondo una tendenza di lusso in voga, per far sembrare che l’acqua si perda nell’orizzonte e nel cielo, senza apparente separazione con la parte esterna. Il muro c’è, lo si vede solo inquadrando il retro, che nel film si vede solo verso la fine. I muri esistono, mentre i muratori ne stanno costruendo altri. Nel finale Enzo è in vacanza in Italia, a visitare delle rovine, a Ercolano. Ancora in un riferimento, nell’archeologia, al film di Guadagnino, il ragazzo ammira quei muri che, da un lato hanno ceduto, dall’altro sono vestigia che si sono conservate dall’antichità.
Il principale problema di Enzo sta nell’irrisolto rapporto tra la costruzione psicologica del ragazzo e le sue implicazioni sociali. Troppo spesso sembra che tutto si riduca alle turbe adolescenziali di un sedicenne un po’ disturbato, seguendo anche uno psicologismo deteriore. In tale senso la scena, del tutto gratuita – non l’unica – di lui che si butta nel vuoto nel cantiere, come un tentato suicidio per attirare l’attenzione. E pure ambigua è quella svolta genderfluid del protagonista, che in questo caso risente di una divergenza, tra Cantet e Campillo, su come questo aspetto dovesse essere reso. Rimane comunque quell’analisi e quella fotografia sociali, delle quali Cantet è stato un gran maestro, che funziona anche nella scelta degli attori. Accanto a grandi professionisti, come Pierfrancesco Favino che interpreta il padre Paolo, ci sono attori presi dalla strada, gli immigrati chiamati a fare sé stessi. Enzo resta così un’opera sospesa tra l’omaggio e la frattura, tra l’intenzione e la resa, ma capace – pur con le sue incertezze – di restituire quel conflitto tra identità, classe e desiderio che ha attraversato tutto il cinema di Laurent Cantet, di cui rappresenta un degno testamento.
Giampiero Raganelli








