Oggi come ieri
All’epoca dell’anteprima mondiale nel fuori concorso della Berlinale 2018, uno stimato collega aveva definito Eldorado un personalissimo 6-2 6-2 6-1 sferrato da Markus Imhoof a Fuocoammare. Testuali parole sottratte al gergo tennistico che ci sentiamo di condividere su tutta la linea pur riconoscendo all’opera di Gianfranco Rosi alcuni meriti, gli stessi che probabilmente le avranno spianato la strada per l’Orso d’Oro nel 2016.
Tuttavia al pluridecorato documentario del regista italiano mancava qualcosa che abbiamo trovato nel nuovo lavoro di Imhoof, tornato dietro la macchina da presa a distanza di sei anni da Un mondo in pericolo. Quel qualcosa è la capacità di entrare con uno sguardo, discreto ma affilatissimo, sulla situazione dei migranti che sbarcano ogni giorno sulle coste italiane. Un tema di strettissima attualità sul quale in molti si sono e continuano a pronunciarsi, ma che in pochissimi hanno saputo veramente affrontare con la medesima capacità performativa, figlia legittima di un approccio alla materia che mescola la sfera private e annesse motivazioni a quella pubblica. Una linea di condotta, questa, che ricordiamo avere incontrato rare volte, una di queste nel pregevole corto animato La nostra storia di Lorenzo Latrofa. Seguendo traiettorie, formati e linguaggi diversi, entrambe le pellicole mescolano senza soluzione di continuità una questione privata con un dramma storico che coinvolge su più fronti milioni di persone. Nello specifico Imhoof intreccia il suo passato con il presente e il futuro altrui, trovando dolorosi punti di contatto spazio-temporali. Con questo muoversi su un doppio binario che procede alternandosi e incrociandosi di volta in volta sulla timeline, il documentario offre allo spettatore quel controcampo che in opere valide come Mare Chiuso della coppia Liberti-Segre, in La Nave Dolce di Daniele Vicari o nel più recente Central Airport THF di Karim Aïnouz, è volutamente venuto meno. In tutti questi casi si è scelto di rimanere ancorati al lavoro sul campo e di ricostruzione, al contrario di Edorado dove a questo si è deciso di affiancare quello intimo ed esperenziale dal forte impatto emotivo.
Per farlo, l’autore riavvolge le lancette dell’orologio ritornando indietro sino alla Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la famiglia del regista, che allora aveva quattro anni, accolse Giovanna, una bambina milanese denutrita, nell’ambito di un progetto temporaneo per l’infanzia, al termine del quale la bambina dovette tornare in Italia. Gli Imhoof si adoperarono per far tornare Giovanna una seconda volta, ma alla fne il governo svizzero la costrinse a rimpatriare. Morì poco dopo, a 13 anni.
Partendo da questa straziante esperienza, il cineasta affronta l’attuale crisi dei rifugiati, la più grande migrazione di massa dalla Seconda Guerra Mondiale, accompagnandoci lungo un viaggio dalle profonde radici personali: l’operazione Mare Nostrum, i campi profughi nel Sud Italia, i richiedenti asilo in Svizzera. Il risultato è un ritratto lucido e al contempo brutale di pratiche disumane e assurde, e di una crisi causata da un sistema economico iniquo che mette al centro le migrazioni forzate dall’Africa, le dinamiche politico-economiche che le alimentano e le infiltrazioni criminali che ne traggono ricchezza.
Del resto, il titolo già di suo evocativo è più di una lettera d’intenti che anticipa quanto andremo a vedere da lì ai prossimi 90 minuti sul grande schermo. L’occasione per noi è stata l’ottava edizione di Cinema Svizzero a Venezia, la “vetrina” dedicata al meglio della cinematografa elvetica allestita nella città lagunare lo scorso marzo e del quale Eldorado è stato il film d’apertura. Tutto il suddetto magma incandescente di argomenti dal peso specifico decisamente elevato diventa l’oggetto di osservazione di Imhoof. Quest’ultimo propone un duplice sguardo dall’interno che lascia il segno da entrambe le prospettive. Uno sguardo mai filtrato, crudo e diretto, che attinge tanto al reportage d’inchiesta quanto al diario. Così procedendo immagini strappate con forza e coraggio dalla tragedia del reale Lettere, disegni e giocattoli di Imhoof da bambino si alternano a interviste, conversazioni e incontri con migranti, volontari, membri del sindacato e dell’equipaggio delle navi di salvataggio delle coste italiane. Il vero miracolo compiuto dal cineasta svizzero sta dunque nell’essere riuscito a fare coesistere il tutto, dando vita ad un corpus filmico potente come un pugno ben assestato alla bocca dello stomaco, di quelli che ti lasciano senza fiato alle corde del ring.
Francesco Del Grosso