Orrori balcanici e autodafé americano
Domenica 8 ottobre, ultimo giorno di programmazione del Fantafestival, al Nuovo Cinema Aquila è stato proiettato Eight Eyes (USA, 2023, 86′) di Austin Jennings, alla presenza dei giovani e gagliardi produttori del film, Justin A. Martell e Joe Rubin. Di lì a breve ci sarebbe stata la premiazione del festival. E abbiamo così appreso, con un certo giubilo, che a questo lungometraggio americano ambientato nei territori dell’ex Yugoslavia la giuria del Fantafestival ha tributato una Menzione Speciale, “per la volontà di raccontare le ferite ancora oggi irrisolte nel paesaggio balcanico, attingendo al linguaggio del cinema di genere e d’autore degli anni ’70.”
Entriamo subito nel merito della decisione. Una presa di posizione giusta? A nostro avviso sì, anzi, quasi per il gusto di “scavalcare a sinistra” i giurati ci azzardiamo a dire che, pur avendo amato noi di CineClandestino pure il vincitore di quest’anno, Viking, l’apprezzamento per Eight Eyes è andato persino oltre: vero e proprio film-rivelazione di questa edizione qualitativamente assai valida, un horror così visionario (anche perché incentrato, almeno in parte, sul tema della visione, ossia su quello sguardo che penetra, comprende e sublima la realtà, arrivando infine a trascenderla) ci ha esaltato durante tutta la proiezione, lasciandoci poi innumerevoli spunti su cui riflettere.
Girato (opportunamente e coraggiosamente) in 16 mm, arricchito di svariati riferimenti al cinema di genere degli anni ’70 (compresi i grandi maestri italiani), Eight Eyes diviene strada facendo un selvaggio, maturo, consapevole autodafé dell’Occidente (e più in particolare dell’ipocrita e distruttivo anelito degli Stati Uniti ad esportare, attraverso una spregiudicata politica estera, il loro concetto di “democrazia”) incentrato – tra le altre cose – sul funesto ricordo dei bombardamenti effettuati in Serbia sotto l’egida della NATO.
Tragica ironia, protagonista del livido racconto cinematografico è una giovane coppia yankee che per cementare il proprio rapporto ha voluto regalarsi un viaggio nell’Europa sud-orientale, dalla Serbia alla Macedonia, con lui (che ama filmare maniacalmente con una piccola videocamera ogni tappa del loro percorso) particolarmente ottuso, ottenebrato dalla propria supponenza; sicché solo una famiglia di spostati piegata dal recente conflitto riuscirà, attraverso una violenza non meno feroce, a far riaffiorare traumaticamente il ricordo di quanto accaduto in chi pretende di fare il “turista” e il videoamatore persino tra i ruderi di una fabbrica distrutta da “bombe umanitarie”.
Le modalità estetiche e narrative di questa cruda, collettiva rielaborazione filmica del senso di colpa coincidono peraltro con un armamentario che va dal seminale Non aprite quella porta alla poetica non meno radicale, sul piano politico, di Eli Roth: più in particolare abbiamo pensato istintivamente alla carica destabilizzante di Hostel: Part II, il più netto della mini-saga nell’associare i truculenti “usi locali”, le amenità da torture porn, a una cattiva coscienza di quell’Occidente corroso da consumismo e cinismo.
Già per come sono espressi tali valori narrativi, in un horror tanto sadico, beffardo e sanguigno, ci sarebbe da evidenziarne l’impronta schietta e finanche geniale. Quando però, nell’ultimissima parte del film, il carattere sempre più lisergico della narrazione finisce per accompagnare egregiamente un ulteriore scarto nella (più o meno volontaria) presa di coscienza della sfortunata protagonista e dei suoi pittoreschi aguzzini balcanici, si sfiora il capolavoro.
Stefano Coccia