Omofobia, orrenda malattia
Difficile prevedere, solo qualche mese orsono, che le nostre esistenze sarebbero radicalmente mutate a causa di un microscopico virus, sciagurato artefice di una pandemia globale che tuttora ci vede alle prese con la macabra conta delle vittime. Eppure è accaduto, sta accadendo. Esiste però un altro tipo di malattia, anch’essa a diffusione mondiale dalla notte dei tempi, causata esclusivamente dal pregiudizio umano: la sua definizione è omofobia. E qualche volta – non troppo di frequente, a dire il vero – il cinema si assume la responsabilità di denunciare il persistere di tale preconcetto purtroppo molto ben radicato, sia da un punto di vista sociale che politico. Affronta la delicata tematica, con encomiabile secchezza, anche il cortometraggio italiano Doppio sei, sette minuti di durata per la regia a quattro mani di Pierluigi Braca e Luigi Montebello, presentato alla quindicesima edizione dell’ÉCU – The European Independent Film Festival.
Una didascalia ad inizio corto annuncia che ci troviamo a Fiumicino, litorale romano, nell’anno 1996. Due giovani si aggirano nel paesaggio brullo che da sul mare. Uno dei due scatta delle foto all’altro. S’intuisce un’atmosfera piuttosto rilassata, da schermaglia amorosa. La coppia inizia poi una partita a dadi. La posta in palio è un rapporto sessuale da consumarsi immediatamente nei paraggi. Vince colui che aveva lanciato la scommessa, prevalendo così sulla pudica ritrosia dell’altro. I due si appartano in una sorta di cantiere abbandonato, dove iniziano un amplesso. Sopraggiunge d’improvviso una terza persona, probabilmente un parente di uno dei ragazzi, come sembra lasciar intuire il flashback d’epilogo. E la tragedia sarà dietro il classico angolo…
Come si evince da questi brevi cenni diegetici Doppio sei non possiede nella particolare originalità della trama il proprio pregio particolare. Eppure emerge con nitore la semplice forza della denuncia. L’ambientazione, per cominciare, è esemplare. Un “non luogo” da manuale – già celebrato da Pierpaolo Pasolini nonché prontamente richiamato nel finale del primo segmento di Caro diario (1993) di Nanni Moretti – capace di astrarre la vicenda in modo assoluto, rendendola assieme universale e atemporale. Definita la cornice, ecco il quadro. Cioè un benefico pugno allo stomaco inflitto alla pigrizia dello spettatore medio, di suo abituato ad essere vezzeggiato e non scosso. In discussione c’è ovviamente la libertà individuale. Non solo di amare chi si vuole ma anche di provare un piacere fisico a prescindere dal rispettivo orientamento sessuale. Senza falsi moralismi. Tra eterosessualità e omosessualità non possono sussistere distinguo. Ciò che viene accettato per la prima categoria deve essere considerato valido anche per la seconda. Del resto, in Doppio sei, risulta efficace anche lo scarto del tono narrativo tra l’incipit e l’epilogo. L’apparente possibilità di poter seguire la propria natura risulta ingannevole e la violenza “sociale”, a valenza ulteriormente simbolica perché priva di volto, può irrompere da un momento all’altro. Un effetto di realismo che conferisce al film una marcia in più, lasciando in chi guarda l’amara sensazione di aver assistito non ad una banale opera di fiction, bensì a qualcosa che potrebbe accadere dovunque ed in qualsiasi momento.
Tanti risultati, quindi, ottenuti in soli sette minuti di visione. Quando si dice che brevità può e deve far rima con essenzialità. Un piccola lezione non solamente morale ma anche di messa in scena su alcune delle qualità che sempre dovrebbero contraddistinguere il cinema nella sua forma espressiva più sintetica.
Daniele De Angelis