Pump the volume
Molti secoli fa il drammaturgo inglese William Congreve avvertiva nella sua piece The Mourning Bride (1697): “Music has charme to smoothe a savage breast, to soften rocks, or bend a knotted oak”. Oppure, in tempi più recenti, il nostrano cantautore Max Gazzè con la canzone “Una musica può fare” (1999) stornellava allegramente: “Una musica può fare cantare lililli o lalalla (maggiore)…”. Queste due citazioni, distanti di secoli e di livelli qualitativi, aprono questa recensione per sottolineare come la musica è sempre stata parte integrante delle nostre vite, proprio perché espressione artistica capace di raggiungere rapidamente i nostri sentimenti. Musica che, spesse volte, è stata elemento aggregante tra la gente (i canti nelle risaie o nelle piazze). A ciò va aggiunto che, personalmente ognuno ha i propri gusti musicali, e detti gusti possono anche far capire che tipologia di persona si ha di fronte. Il miglioramento della tecnologia a tutti i livelli, poi, ha anche permesso l’ascolto perenne a volumi audio che più aggradano. La musica può essere sparata a tutto volume nei locali, oppure molte persone, munite di Ipod o tecnologie similari, si calcano le cuffie nelle orecchie e si fanno inghiottire dal proprio mondo musicale, escludendo tutto ciò che gli sta intorno.
Oggigiorno la musica è in sostanza divenuta un ostacolo tra gli esseri umani, annullando completamente la comunicazione (la persona s’isola dentro la propria bolla musicale) oppure rendendola faticosa (nei locali in cui le casse sprigionano suoni a livelli allucinanti). Ecco che questa realtà è resa molto bene e con una giusta dose d’ironia in No, I Don’t Want to Dance! (2019) di Andrea Vinciguerra. Questo cortometraggio d’animazione di brevissima durata (meno di tre minuti), attraverso una serie di differenti vicende ambientate in diversi ambiti di vita quotidiana, illustra come la musica sia una barriera, e la gente è ipnotizzata dalla musica che ascolta, e quello che gli ruota intorno (in questo caso tragedie) lo vede filtrato tramite il ritmo della musica. Andrea Vinciguerra, al suo secondo cortometraggio, dopo aver realizzato una commedia grottesca con attori in carne e ossa (Teeth and Pills, 2018), questa volta ha preferito scegliere l’animazione, nello specifico quella dei pupazzi di pezza, per marcare maggiormente l’infantilismo di queste vicende ridicole… ma purtroppo veritiere. E come soundtrack, che ricopre tutto il corto, una di quelle canzoni elettroniche monocordi che “plagiano” gli ascoltatori, il cui ritmo è facile da recepire ed elementare da riprodurre con le movenze del corpo. Si ride in No, I Don’t Want to Dance!, ma si può valutare anche come sia ridicola e pericolosa questa incomunicabilità.
Roberto Baldassarre