I rami sulla culla…
Pochi registi possono vantare una carriera tanto sorprendente e altalenante come quella di William Friedkin. Arguto e provocatorio, spregiudicato e imprevedibile, Friedkin è stato forse il più innovativo tra i cineasti della cosiddetta Nuova Hollywood, esibendo lungo un percorso fatto di generi all’apparenza inconciliabili, e sin dagli esordi come documentarista sui generis, non solo una sintassi, ma una concezione del racconto cinematografico quanto mai radicale e d’avanguardia, oscura e impenetrabile come un’ombra nell’ombra, le cui diverse sfumature si confondono una sull’altra in un quadro suggestivo e al tempo stesso sfuggente. Una visione, quella del filmmaker di Chicago, divenuta strada facendo raffinato paradigma, e rivendicata con l’orgoglio di chi, negli anni, ha puntato alla sostanza cavalcando con spirito oltranzista flussi e riflussi dell’industria hollywoodiana (e della propria personale ispirazione); l’orgoglio di chi ha ridefinito le coordinate di più di un genere, di chi rifiuta il compromesso – quali che siano le conseguenze –, l’orgoglio di chi, pur non ambendo al titolo di Autore (un riconoscimento che tuttavia gli è dovuto), è consapevole del proprio ruolo «di rottura» in un contesto di palingenesi creativa che rianimò nei primi Settanta il desolante scenario di macerie dell’establishment hollywoodiano.
Il montaggio deliberatamente spiazzante, fatto di stacchi impercettibilmente «sbagliati», inattesi, comunque sia sempre perturbanti a livello subliminale; il realismo quale negazione di ogni approccio manicheo e delle artefatte, scontate banalità tanto care alla fiction più ortodossa; il ritmo ora serrato ora riflessivo, lo sguardo crudo sulla realtà che ci circonda, dove Bianco e Nero, Giusto e Sbagliato, Buono e Cattivo si confondono implacabilmente; le tematiche audaci e inquietanti, l’importanza dell’elemento sonoro, il dialogo funzionale, i finali aperti o sospesi: tutto, proprio tutto nel cinema di Friedkin gioca un ruolo fondamentale nel disattendere le aspettative dello spettatore, così da confonderlo, (per)turbarlo, sorprenderlo.
Così da spingerlo, ed ecco forse l’aspetto più importante, a porsi delle domande.
I film di Friedkin, o per lo meno i migliori film di Friedkin – perché nessuno, come sappiamo, è infallibile –, non ti abbandonano mai, ti montano dentro, e i loro misteri, le loro angosce, si ripresentano puntuali il mattino dopo la visione, per tormentarti con la medesima, tediosa inevitabilità di una stagione poco amata; si trasformano, insomma, in una splendida ossessione (il che rappresenta forse il più grande complimento si possa fare a un’opera cinematografica). Chi può scordare la fredda, disperata metropoli newyorkese de Il braccio violento della legge, ovvero il film che ha rivoluzionato – sia pure in ottima compagnia, Bullitt e Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo!! – il genere poliziesco? O la terrificante discesa negli inferi de L’esorcista, la pellicola che con stucchevole regolarità si contende insieme a Shining il primato di quelle classifiche che pretendono di «sintetizzare», e per giunta in maniera astoricizzata, oltre un secolo di cinema dell’orrore?
Per non parlare, ma qui siamo lontani dai botteghini presi d’assalto e dai prestigiosi riconoscimenti della critica, e piombiamo invece in pieno cinema maledetto, di quell’assoluto, enigmatico e sconvolgente capolavoro che risponde al titolo di Cruising, manifesto inquieto e inquietante sul concetto di ambiguità intesa quale motivo peculiare (e portante) del «divenire» cinematografico.
Eppure, lo testimoniano proprio le controversie di Cruising, la carriera di Friedkin ha attraversato luci e ombre, alternando in un continuo saliscendi di trionfi e insuccessi periodi di splendore e decadenza. Le gioie e le delusioni, gli attriti e le rivalse, le ansie, le insicurezze e le contraddizioni di una emozionante avventura lungo i sentieri della Settima Arte, peraltro, Friedkin ce le racconta, analizzandole (esorcizzandole?) con brutale sincerità, nella sua (consigliatissima) autobiografia: Il buio e la luce. In queste confessioni di cineasta «maledetto», quasi a rimarcare un feroce sdegno per ogni forma di censura, Friedkin non si limita a celebrare il proprio talento o le proprie rutilanti intuizioni, ma ammette colpe, passi falsi, peccati di arroganza; non si sottrae, insomma, al «dibattito». Con due eccezioni. Due film – suvvia, due autentici disastri – i cui connotati vanno evidentemente al di là di quel refugium peccatorum che accoglie e celebra, e non soltanto in ambito cinematografico, il meraviglioso e irresistibile fascino della sconfitta. Il primo è Deal of the Century; il secondo, su cui bontà del lettore permettendo vorremmo soffermarci, è L’albero del male.
Ecco, a proposito de L’albero del male Friedkin non spende una parola. Neppure per criticarlo, ammetterne le manchevolezze, giustificarne la desolante incompiutezza. Nulla. Silenzio assoluto. Quasi il film fosse uno scheletro nell’armadio, uno di quei parenti scomodi che si finge ostinatamente di non conoscere.
Eppure, e ritorniamo al fascino dell’insuccesso, questo film dimenticato o semplicemente dimenticabile rappresenta, come spesso nella vicenda e nell’opera di Friedkin, un enigma stuzzichevole. Basta ridurlo ai minimi termini che ne costituiscono il preludio produttivo ed ecco sprigionarsi una fragranza irresistibile.
Friedkin da un lato. L’horror dall’altro.
«Dal regista de L’esorcista», recitano non a caso i manifesti ideati dalla Universal. E pazienza se i tempi sono cambiati, e con loro i gusti del pubblico e le risorse a disposizione di Friedkin, già orfano da diverso tempo di credito e di fiducia (esauritesi, o meglio schiantatesi contro il flop milionario de Il salario della paura) presso i salotti hollywoodiani. Perché lo spunto, sebbene non fulminante come quello di Blatty, è intrigante quanto basta. Un romanzo, Nanny di Dan Greenburg, sulle vicissitudini a tratti genuinamente spaventose di una coppia di sposini che apre, per così dire, la porta al «lupo cattivo», incarnato da una seducente bambinaia che è in realtà una creatura soprannaturale alla disperata (e brutale) ricerca dell’amore eterno – l’amore, per usare le parole di Greenburg, «puro, perfetto, senza compromessi, totale, incondizionato».
Peccato che a queste premesse si accompagnino scenari assai poco rassicuranti.
Cominciamo col dire che Friedkin, all’alba del ’90, è un semplice rimpiazzo.
Prima di lui era toccato a Sam Raimi misurarsi col progetto – trasformato con lo sceneggiatore Stephen Volk in un horror grottesco sul modello La casa 2 –, ma quando questi si tira indietro per dirigere Darkman, il produttore Joe Wizan ripiega su Friedkin. E sebbene Friedkin – non ce ne voglia Raimi, autore a sua volta – sia cineasta di altra caratura, le idee sono stavolta tutt’altro che chiare; non vanno oltre, per intenderci, il considerare inadeguato il pretesto soprannaturale del romanzo. Per Volk ha inizio un autentico calvario: arriva persino a proporre un canonico thriller su una tata psicopatica, ma la Universal fa la voce grossa: «Abbiamo Friedkin, vogliamo un horror in stile L’esorcista!» Quando ormai si è sull’orlo di una crisi di nervi, Volk suggerisce di incorporare nella vicenda elementi e suggestioni da Il frassino di M.R. James, un’intuizione che entusiasma Friedkin spingendolo, per le perplessità della protagonista Jenny Seagrove (tutt’altro che entusiasta dell’approccio soprannaturale imposto dagli executives, ai quali in seguito «rinfaccerà» il grande successo del thriller La mano sulla culla… è la mano che governa il mondo), ad arricchire lo script con rimandi al Druidismo. «Nella versione che scrissi per Raimi», ha rivelato Volk, «la tata era l’incarnazione della prima sposa di Adamo, Lilith, che nella mitologia viene descritta come una strega che rapisce neonati. Friedkin preferì invece che il personaggio incarnasse il lato oscuro della cultura pagana».
E così, in men che non si dica, la Seagrove si trasforma in una mostruosa sacerdotessa dai poteri draculeschi (comanda i lupi, pardon, i coyote!) che nutre con ignari lattanti lo spirito custode che dimora in un albero del male; è lei stessa parte dell’albero, o almeno così pare, perché il film, lo si è intuito, è assai sconclusionato.
Lo script, ultimato da Friedkin durante le riprese, fa acqua da ogni parte (nel romanzo, per dirne una, la diabolica tata semina morte e disperazione attraverso l’America, nel film mette radici nei dintorni di Los Angeles, con tutti i rischi che ne conseguono), e molti snodi, per non parlare dei relativi effetti-di-montaggio (uno su tutti: il bebè offerto in sacrificio che scompare e ricompare ex abrupto imprigionato nell’infame corteccia), sono ingenui, indegni del genio di Friedkin. Alla Seagrove, inoltre, non riesce di replicare sullo schermo quel misto di innocenza e perversa sensualità che caratterizza la tata del romanzo. Non che la pellicola sia mal recitata (Dwier Brown e Carey Lowell interpretano la coppia protagonista, ma c’è anche Miguel Ferrer), ma sarà la piatta fotografia di John A. Alonzo, sarà lo stereotipato commento musicale di Jack Hues, che tolti gli sfacciati eccessi gore (da antologia la carneficina ai danni dei tre balordi che insidiano la tata e il neonato: rami indiavolati che mutilano, decapitano – e coyote che lappano i macabri resti –, radici che squarciano, persino il tronco che addenta!) si ha la sgradevole impressione di assistere a un film televisivo.
Ed è un vero peccato, dato il senso di Friedkin per l’oscuro e l’inquietante, che i migliori passi del romanzo vengano scartati (la tata colta ad allattare il neonato, le sue lascive incursioni nella stanza da letto padronale, limitate nel film a un incubo del protagonista) o, peggio ancora, perdano di forza e significato. Greenburg (per)turbava profondamente con l’immagine tanto inattesa quanto sconvolgente della tata sorpresa nuda a fare il «bagnetto» con il neonato; ne L’albero del male questa scena è inoffensiva, meccanica, priva di pathos.
Eppure – enigmi stuzzichevoli, dicevamo –, anche un Friedkin ai minimi storici sa stupire. Colpiscono l’assedio dei coyote alla villetta di un incauto ficcanaso (la sequenza migliore del film) e l’euforia sanguinaria del finale, con il protagonista armato di sega elettrica che fa a pezzi la Diabolica Trinità: albero, spirito custode e infame sacerdotessa. Un epilogo che se da un lato strizza l’occhio al De Palma di Carrie lo sguardo di Satana (Brown ricoperto dal sangue che schizza dai rami recisi), dall’altro ha certamente ispirato a Tim Burton un’analoga scena de Il mistero di Sleepy Hollow.
Quanto al talento di Friedkin, incontestabile e adamantino, l’immagine della Seagrove stesa sull’albero, nuda, con i suoi accoliti della foresta che sembrano venerarla, è uno struggente quadro macabro grondante verginità e morbosa depravazione. E per un solo, magnetico istante, anche un pasticcio come L’albero del male può trasformarsi in un fiabesco e incantevole omaggio alla Natura Oscura.
Stefano Leonforte