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Garoto

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VOTO: 8.5

Colpa, espiazione, redenzione

All’interno di un’offerta ricca e variegata come quella della presente cinquantacinquesima Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, particolarmente degna di nota è la sezione pensata per omaggiare i trent’anni della trasmissione Fuori Orario – Cose (mai) viste. E se, dunque, all’interno della presente sezione viene proiettato anche un lungometraggio del calibro di Garoto – penultima fatica del 2015 realizzata dal cineasta brasiliano Julio Bressane – la cosa si fa ancor più interessante. Perché, di fatto, la fortunata trasmissione ideata da Enrico Ghezzi, ha da sempre prestato grande attenzione a questo importante esponente del Cinema Novo brasiliano, quale nome maggiormente da tener d’occhio all’interno del cosiddetto settore udigrudi (in inglese, underground).

Noto per la sua forte, fortissima voglia di sperimentare e di dar vita a nuovi linguaggi – pur realizzando, solitamente, film a budget estremamente ridotto – Bressane non è certo uno degli autori più facili da seguire, data la forte componente politica e filosofica all’interno delle sue opere. Eppure, il presente Garoto, tendendo (almeno apparentemente) a mettere da parte per un attimo il suddetto discorso politico, mette in scena una struggente storia d’amore, una storia in cui sono la ricerca di sé stessi, l’espiazione delle colpe e una marcata spiritualità a fare da filo conduttore dell’intero lavoro.
Ci troviamo, in principio, all’interno di un bosco. Un bosco che si fa immediatamente simbolo dell’inconscio, dell’onirico, quale condizione necessaria alla liberazione del vero sé. Un ragazzo e una ragazza si amano in modo contemplativo, platonico e carnale allo stesso tempo. Poi, improvvisamente, all’interno dell’appartamento di una donna solita dare soldi alla ragazza per soddisfare le proprie fantasia sessuali, si compie un efferato omicidio. Da questo momento in avanti, gli equilibri sono rotti, un profondo senso di colpa e di morte pervade l’esistenza dei giovani e soltanto il ritorno alla natura e, appunto, l’espiazione delle proprie colpe potrà in qualche modo salvarli.
Non v’è alcun commento musicale – fatta eccezione per un singolo brano immediatamente precedente la chiusura – in Garoto. Tutto ci viene presentato nel modo più essenziale possibile. Bressane, dal canto suo, ben sa gestire questa messa in scena lavorando di sottrazione e optando – soprattutto all’inizio – per inquadrature fisse, figure talmente statiche da seguire appieno i canoni dello straniamento brechtiano e raffinate composizioni del quadro che, a tratti, sembrano ricordarci il celebre Déjeuner sûr l’herbe di Édouard Manet. Eppure, tale pacifico equilibrio viene immediatamente spezzato dopo l’omicidio. A questo punto, infatti, è soprattutto un forte, fortissimo vento di felliniana memoria che, infondendo al tutto un pesante senso di morte, accompagna i due personaggi nelle loro peregrinazioni apparentemente senza meta, con una macchina da presa che si fa via via più agile. Fino a giungere alla tanto sospirata espiazione delle colpe e al raggiungimento di una sorta di “sublime” di turneriana memoria.
Un lavoro, il presente Garoto, che in poco più di un’ora e un quarto ci dice praticamente tutto. Un lavoro sì impegnativo, ma incisivo come solo le opere del cineasta brasiliano sanno essere. E che, al pari dei precedenti lavori dell’autore, è in grado di stupirci, spiazzarci e annichilirci in un lungo e sofferto percorso verso la redenzione. Verso la bellezza allo stato puro.

Marina Pavido

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