Guardo il mondo da quassù
I bimbi che giocano, gli operai che lavorano, i turisti che scattano selfie e foto-ricordo: intorno alla Basilica di Sant’Ambrogio, simbolo di Milano, scorre la vita quotidiana. Primavera, estate, autunno, inverno, all’alternarsi delle stagioni si intreccia il respiro della città: le persone, la luce, i ritmi che cambiano secondo le ore, i luoghi il cui orizzonte appare in una continua trasformazione. L’unico punto fermo è la Basilica, immoto e secolare testimone di una Storia che sembra sospendersi nel flusso del presente. Ed è proprio lì sul suo campanile che ha trovato posto la macchina da presa di Antonio Di Biase, con la quale ha catturato le immagini che hanno dato forma e sostanza al documentario De Sancto Ambrosio, presentato in anteprima italiana nel concorso di Filmmaker Festival 2018 dopo la prima apparizione pubblica in Repubblica Ceca all’International Documentary Film Festival Jihlava.
Attraverso uno sguardo rigoroso, invisibile e silenzioso in semi-plongè con focali lunghe, scarno ed essenziale, il regista abruzzese ha osservato e contemplato la città meneghina e il suo mutare, in un continuo flusso di immagini pittoriche, gesti, ombre e piccole voci. Dall’alto della Basilica di Sant’Ambrogio si scorge una piazza sospesa nel tempo, simile ad un grande acquario all’interno del quale le persone vagano senza meta e, apparentemente, senza alcuno scopo. Ma uno scopo c’è ed è parte integrante della vita stessa e del suo materializzarsi in un luogo ben preciso, che nei 50’ dell’opera in questione diventa il baricentro e l’ombelico del mondo. Un luogo di continuo passaggio che nella pellicola di Di Biase si svuota e si riempie diventando crocevia di gioie e sofferenze, amore e disperazione, classi sociali, età, religioni e provenienze diverse, ricchezza e povertà, vita e anche morte.
De Sancto Ambrosio è un film prezioso capace di tocchi di humour e di lirismo, oltre che di una grande compattezza formale, che vale la pena di essere difeso e preservato dai possibili attacchi di quella fetta di pubblico per la quale la visione può rappresentare un’esperienza audiovisiva ostica. Ad una lettura superficiale, la pellicola può apparire nient’altro che un esercizio stilistico e autoriale fine a se stesso, quando al contrario, se analizzato dalla giusta prospettiva, rivela un “magma” ricco di intenzioni. Scavando sotto l’epidermide di una timeline composta da una sequela di quadri rigorosamente fissi, vi sono infatti più anime brulicanti ad alimentarne il DNA, che hanno tutte a che vedere con il gesto semplice dell’osservare la realtà che ci circonda nel momento stesso in cui essa si manifesta. Un gesto, questo, che nel suo essere scontato appare però ad oggi figlio di una pratica in via d’estinzione e che l’autore, da parte sua, cerca di rivalutare e di sottolinearne l’importanza. Quello che prende forma è un ritratto cinetico nel quale trovano posto di volta in volta e a seconda di dove l’occhio della cinepresa va a posarsi, un insieme di geometrie, architetture e figure animate. Tale insieme diventa la materia prima di un’opera che è al contempo una “sinfonia urbana” che rievoca le sperimentazioni di Walter Ruttmann, le tele di de Chirico e la fotografia dei primi del Novecento o quella geometrica di Noelle Oswald, ma anche un saggio lucido e immersivo di pura osservazione etnografica come se ne vedono sempre più di rado. Il tutto nobilitato e arricchito da un efficacissimo e pregevole lavoro di sound design firmato da Massimo Mariani, al quale va un plauso particolare in quanto vero e proprio valore aggiunto.
Francesco Del Grosso