Simulacri del tempo presente
David Cronenberg non è un cineasta umanista nel senso convenzionale del termine. E, se può essere considerato tale, lo è in modo del tutto anomalo e particolare. L’autore canadese è soprattutto un antropologo affetto da lungimiranza acuta, capace di scorgere dentro e fuori l’essere umano cose non visibili ai comuni mortali. Dopo le mutazioni corporali dei suoi horror (o meglio drammi filosofici, se non addirittura melodrammi sentimentali condotti sino alle più estreme conseguenze (1)…), le esplorazioni psicologiche di menti cangianti spaventosamente incastrate in contesti solo apparentemente “normali” (e perciò ancora più indecifrabili, per ulteriore paradosso, come in A History of Violence), era quasi inevitabile che Cronenberg allargasse il campo del suo cinema alla contaminazione globale, sempre però osservata dal punto di vista meramente soggettivo di un individuo debole ed imperfetto, irrimediabilmente prigioniero della propria, tipica, amoralità umana. Una decadenza irreversibile – peraltro preconizzata da un certo Karl Marx qualche secolo orsono – causata dal “germe” più contagioso conosciuto in natura, ovvero il capitalismo duro e puro. E lo spunto per questo nuovo viaggio cronenberghiano nei meandri di un universo sfuggente e inconoscibile – assimilabile per molti versi a quello compiuto nel 1991 con l’altra trasposizione sulla carta impossibile, quella de Il pasto nudo, sia pure con tutt’altre finalità – gli viene dal romanzo di uno dei massimi scrittori statunitensi contemporanei, quel Don DeLillo capace di raccontare passato e presente degli States, intesi come luogo simbolo, attraverso folgoranti e paradossali immagini create da dialoghi condotti sul filo del grottesco ma capaci di illuminare magicamente gli anfratti più reconditi della società globale. Da un incontro del genere non poteva che nascere un film seminale come Cosmopolis, un’opera che contemporaneamente chiude qualsiasi discorso di tipo illuministico sull’uomo aprendone di conseguenza un altro, se possibile ancora più vasto e incommensurabile.
Tra i molteplici sottotesti presenti nel libro di DeLillo, quello che ha attirato in tutta evidenza l’attenzione di Cronenberg – tanto da costituire in pratica l’asse portante dell’intero film – risiede nella irrisolvibile contraddizione umana tra pulsioni primarie e razionalità finalizzata ad un progresso tecnologico descritto, in una reiterazione senza soluzione di continuità nella poetica cronenberghiana, come del tutto fine a se stesso, quando non foriero di conseguenze disastrose (La mosca docet). L’Odissea metropolitana (2) del protagonista, il giovane multimiliardario Eric Packer – succube del suo sterile desiderio, tanto istintivo quanto “proustiano”, di tornare a tagliarsi i capelli dal barbiere del quartiere d’origine – è incastonata da Cronenberg in una messa in scena di mirabile essenzialità, dove le riprese dell’esterno della limousine al cui interno si svolge gran parte del film diventano metaforici ed eleganti carrellate sulla realtà “altra” rispetto a quella del protagonista; e persino la scenografia ci racconta attivamente della parabola di un mondo, quello appunto descritto in Cosmopolis, dapprima immerso nel lusso più futuribile ma che al contrario termina la sua corsa (anti)narrativa nella squallida residenza di Benno Levin (3), non banale nemesi bensì perfetto alter ego di Eric Packer in un’altra delle realtà impossibili di cui il pessimismo assoluto di Cronenberg ci fa solo avere sentore nel film.
Se A Dangerous Method poteva essere interpretato come la chiusura radicale e senza appello di un secolo – il Novecento – nel quale il consorzio umano si era illuso di poter scorgere la prevalenza della ragione sulla ferinità delle passioni, inabissandosi tra l’altro in due guerre mondiali rappresentanti a tutt’oggi ferite affatto rimarginabili, è lecito definire Cosmopolis un’opera proiettata nel nuovo millennio e persino oltre: una sorta di trattato filosofico sull’essere umano ormai ridotto a simulacro di se stesso, in completa balia di fattori ad esso ormai totalmente alieni ed incontrollabili, a partire da quelli che regolano gli andamenti dell’economia nel mondo. E tutto ciò – fatto che rende Cosmopolis ancora più imprescindibile – senza l’ombra di una qualsiasi connotazione ideologica che possa inquinare il senso ultimo di un film geometrico e respingente, surreale nel seguire ed esplicitare i contorti labirinti mentali del personaggio principale (perfetta, in questa chiave di lettura, la scelta di un’icona ancora “virtuale” come Robert Pattinson) ma al contempo esemplare nel rendere manifeste – parimenti al testo ispiratore – le storture che imprigionano e imprigioneranno in misura sempre maggiore i componenti di una società ormai schiava delle proprie sovrastrutture.
Cosmopolis è, al tirar delle somme, uno dei pochissimi capolavori recenti in grado di mutare la percezione altrui sullo stato delle cose. A patto però di sapersi scuotere da quel torpore cinematografico (e non solo) figlio di troppe visioni predigerite.
Daniele De Angelis
NOTE
1 – Il riferimento è soprattutto a Rabid, sete di sangue (1977) e a La mosca (1986).
2 – Gli espliciti riferimenti, presenti nel romanzo di DeLillo, a l’Ulisse di James Joyce permangono anche nel testo filmico di Cronenberg, soprattutto nella forma scelta per la diegesi.
3 – Il personaggio di Benno Levin – ottimamente interpretato nel film da un incisivo Paul Giamatti – è quello ad aver subito i rimaneggiamenti più netti rispetto al romanzo. Dopo una brevissima apparizione vicino ad un bancomat compare solo nel finale, nel dialogo a due con Eric Packer che tira simbolicamente le fila del film.