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Dare to Stop Us

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VOTO: 5.5

Wakamatsu & Co.

Informazione di servizio: Dare to Stop Us di Shiraishi Kazuya è un film che abbiamo scoperto durante la ventunesima edizione del Far East Film Festival, ma che diventa ora accessibile anche al pubblico romano. Difatti dal 9 maggio (e l’iniziativa si protrarrà fino al 6 giugno, tant’è che consigliamo di seguirla con la dovuta attenzione) alcuni dei più interessanti lungometraggi nipponici visti quest’anno a Udine, proprio grazie a una partnership con il festival friulano, sono in programmazione all’Istituto di Cultura Giapponese, rinomato spazio culturale che al pubblico della capitale ha già regalato, nel corso degli anni, preziose retrospettive. Oggi, 16 maggio (ore 19, per la precisione), sarà pertanto il turno di Dare to Stop Us, un’opera che drammaturgicamente non ci ha convinto fino in fondo ma che ha, in compenso, molteplici motivi di interesse.

Il lavoro di Shiraishi Kazuya prende infatti spunto dal clima irripetibile creatosi verso la fine degli anni ’60 all’interno della Wakamatsu Production, leggendaria casa di produzione che vedeva il vulcanico Wakamatsu Koji, mina vagante del cinema giapponese dell’epoca, interagire con personalità del calibro di Adachi Masao o Arai Haruhiko, attivo quest’ultimo sia come film-maker che come critico cinematografico. Ma nell’intenso racconto fanno capolino anche altri, vedi ad esempio Oshima, ulteriore esempio di genialità capace di andare controcorrente e in profondità, nella sua visione della società giapponese.
Ad ogni modo il punto di vista adottato in Dare to Stop Us è quello di Yoshizumi Megumi, giovane e talentuosa, ma anche fragile, che si accosta al picaresco mondo dei set cinematografici proprio entrando nel clan di Wakamatsu, assaporandone tanto l’indiscutibile vena creativa che le piccole follie autodistruttive; fin quasi a farsi fagocitare da questa nuova vita… il che rende tale lungometraggio un ficcante racconto di formazione, seppur con i limiti che andremo tra poco ad evidenziare.

Ben supportato da attori visibilmente partecipi del progetto, Shiraishi Kazuya si è dimostrato abile sia nel fornire un identikit attendibile del cinema di quegli anni, della prassi affermatasi in set tanto particolari e “sui generis”, che nel definire lo stile di vita bohémien di Wakamatsu e della sua cerchia più stretta. Meno efficace appare il film quando apre scorci sulla società in cui si muovevano i protagonisti. Certi episodi, pur importanti, vengono rappresentati rapsodicamente e a volo d’uccello. Forse per la tendenza a mettere tanta carne al fuoco, anche troppa, verrebbe da pensare: accade così che l’azione dimostrativa e il conseguente suicidio di Mishima vengano liquidati con un, pur emblematico, scambio di battute tra i protagonisti, da cui non trapela certo la portata del dibattito culturale legato a quel gesto. L’impressione, insomma, è che Dare to Stop Us si rivolga a tratti a coloro che quel periodo storico lo conoscono bene e non hanno bisogno di una “rinfrescata”, a tratti ad un pubblico più interessato ai risvolti personali dei protagonisti e meno agli approfondimenti di natura socio-politica. Fatte queste obiezioni, l’opera cinematografica realizzata da Shiraishi Kazuya merita comunque di essere vista, per la natura affettuosa di tale omaggio, come anche per l’apprezzabile tentativo di risvegliare la curiosità dello spettatore (orientale e non) attorno a una pagina di storia del cinema particolarmente viva in Giappone.

Stefano Coccia

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