Cronache impressioniste fra Storia e non-luoghi
Dirigere un documentario – inteso nell’accezione più cinematografica del termine – non è un’operazione semplice: perché non si sta facendo una featurette per gli extra di un Dvd, né un prodotto televisivo stereotipato per Discovery Channel – tutte operazioni assolutamente legittime e pregevoli, ma che esulano dal discorso della Settima Arte. Un filmmaker che si accinge a creare un documentario deve essere consapevole di questo: se si vuole fare un autentico film documentario (o docufilm, come si usa dire) non basta montare interviste e immagini di repertorio, bisogna avere un’idea, un proprio stile, una carica rivoluzionaria e creativa di originalità che sappia far fluire senza soluzione di continuità la realtà filmata in una storia (vera o di fiction) che si ha in mente. Per intenderci, come sapevano fare maestri quali Federico Fellini e soprattutto Werner Herzog, i cui documentari come Fata Morgana fanno tutt’oggi scuola. In Italia, oggi, di registi che hanno appreso la lezione e sono in grado di dirigere doc in modo creativo ce ne sono: pensiamo a Gianfranco Rosi (Fuocoammare, Notturno), Michelangelo Frammartino (Le quattro volte, Il buco), Simone Scafidi (Appunti per la distruzione, Fulci for Fake) e Catherine McGilvray (Fellini e l’Ombra), ma non sono gli unici. Nella selezione ufficiale dello scorso Festival di Locarno, è stata presentata un’opera in grado di suscitare stupore, orrore e meraviglia: Dal pianeta degli umani (2021) di Giovanni Cioni, uno dei docufilm più anarchici che siano stati diretti in Europa negli ultimi anni, diretto da un regista che ha una consolidata esperienza nel genere e che col suo nuovo film raggiunge probabilmente la propria vetta artistica, consacrata dalla partecipazione al rinomato concorso elvetico.
Dal pianeta degli umani è un film di cui è difficile parlare, è un magma onirico, è una creazione artistica che va vista, talmente tante sono le suggestioni, i sogni, le immagini, le piste narrative, raccontate in una sorta di flusso di coscienza degno dell’Ulisse letterario di Joyce o, appunto, dei docufilm più visionari di Herzog. Scritto dallo stesso Cioni, ha come punto di partenza il tratto di strada tra Ventimiglia e Mentone, una zona di frontiera che separa l’Italia dalla Francia e che è un crocevia del flusso dei migranti, che fuggono in cerca di una vita migliore. La macchina da presa – accompagnata dalla voice-over narrante di Cioni, calda e ammaliante come una litania – si muove lungo questo percorso, dove gli sventurati sono respinti dalle strade e dalle stazioni e sono costretti a muoversi attraverso il poco rassicurante “sentiero della morte”, un percorso che passa attraverso le montagne a picco sul mare, sbucando sul versante francese. Proprio su questo sentiero, si trovano i resti di quella che fu la villa del dottor Serge Voronoff, un chirurgo russo operante sulla frontiera franco-italiana negli anni Venti del Novecento e che nel suo laboratorio conduceva orribili esperimenti, trapiantando negli uomini i testicoli e altre ghiandole delle scimmie, con lo scopo di ringiovanire gli esseri umani. La storia narrata da Cioni si muove costantemente fra questi due sottotesti apparentemente lontanissimi, eppure accomunati non solo dalla vicinanza geografica, ma anche dalle storture della Storia degli esseri umani di ieri e di oggi. Montando senza soluzione di continuità immagini documentaristiche – il sentiero, la villa, il mare, i primi piani di una rana (gli anfibi che abitano quei luoghi abbandonati) – insieme a spezzoni tratti da vecchi film come King Kong, il regista compone dei tableaux vivants fortemente criptici ed evocativi, frutto delle sue libere e creative associazioni mentali, e narrati come se ci trovassimo in un sogno, o meglio in un incubo, sospeso in un non-luogo e in un non-tempo.
Il fatto che non ci troviamo in un documentario convenzionale si può già intuire dalle didascalie iniziali, le quali – in pannelli esplicativi realizzati con una grafica da film muto – danno indicazioni contraddittorie finalizzate a togliere ogni certezza allo spettatore, e che saranno reiterate in modo simile nel corso del film: “C’era una volta a quei tempi”, “ai nostri tempi”, “è una fiaba”, “non è mai successo”, “è una storia vera”. Indicazioni che colgono il senso più profondo della creazione artistica che andiamo a vedere: qualcosa che sta succedendo adesso ed è successo prima, qualcosa di realmente accaduto insieme ad altre cose soltanto sognate, immaginate dall’autore, in continue ellissi spazio-temporali. Poi, la macchina da presa si sposta in un’inquadratura sul mare, e si muove in avanti, a pelo sull’acqua – un’altra immagine ricorrente nel film, poiché il mare è l’elemento naturale primario della storia, insieme alle montagne, quella distesa d’acqua che è anche il fluire continuo dei pensieri e dei sogni.
La vicenda inizia con un “diario di bordo” che comincia nel gennaio 2017, quando Giovanni Cioni intraprese la sua esplorazione, per prendere gradualmente una strada diversa che si perde volutamente in mezzo a mille suggestioni e impressioni: non è azzardato definire Dal pianeta degli umani come un documentario impressionista, per il carattere intimista e frammentario delle immagini che vengono colte e rielaborate appunto come suggestioni per lo spettatore, al quale è deputato a sua volta il compito di rielaborarle o – più semplicemente – di abbandonarsi ad esse nel flusso di coscienza magico, onirico e al contempo crudele creato dal regista. Perché, se ci troviamo in una fiaba, essa è una fiaba nerissima (e, se ci troviamo in un sogno, esso ha i contorni inquietanti di in incubo), ambientata in luoghi che diventano un non-luogo e sospesi nel tempo (come nel romanzo “L’invenzione di Morel”, che viene citato), tanto affascinanti e suggestivi nella dimensione naturale quanto disperati e orrorifici nelle vicende che vi si svolgono. Cioni procede nella narrazione della vicenda dei migranti, mai inquadrati in volto – il massimo che vediamo è un mezzobusto inferiore di una persona della quale sentiamo solo la voce – e ci spiega la condizione disperata di questi sventurati che vengono respinti dalle vie ufficiali e devono perciò fuggire verso la Francia lungo il famigerato “sentiero della morte”, il quale si inerpica fra le montagne della frontiera, dove a un certo punto vedremo una moltitudine di panni abbandonati che colpiscono più di mille parole. I sentieri che vengono inquadrati, sempre con una camera a mano molto naturalistica (così come la fotografia), si trovano a picco sul mare e sono una zona di frontiera fra due Paesi ma anche un non-luogo, un luogo dell’anima, un ambiente suggestivo e favolistico ma sede di vicende umane drammatiche.
Oggi i migranti, ieri i macabri esperimenti del dottor Voronoff: così distanti nel tempo e nelle caratteristiche, quanto simili nella sostanza, cioè il trait-d-union che ispira Cioni per il suo docufilm, il quale racconta appunto tramite impressioni rapsodiche alcune storie di quello che è il pianeta degli umani e che si svolgono nel medesimo ambiente. Storie che sono più che altro storture della Storia con la S maiuscola e che mostrano alcuni aspetti aberranti degli uomini: dai migranti costretti a mettere in pericolo la loro vita poiché respinti da altri esseri umani, a un mad-doctor degno di un film horror che compiva esperimenti al di là di ogni etica. Entrambi gli eventi sono storici, tangibili, documentati, eppure trasposti da Cioni come in un inquietante sogno a occhi aperti, in cui l’autore fa da narratore esterno ma al contempo partecipante con pathos. I materiali che compongono Dal pianeta degli umani sono tra i più disparati, montati abilmente come a creare un’unica vicenda sospesa nel tempo e nello spazio: ci sono i filmati realizzati da Cioni sul sentiero e sull’esterno della villa, alternati a frammenti documentaristici d’epoca su Voronoff e a spezzoni tratti da vecchi film concernenti esperimenti scientifici e simili, in quello che risulta essere un cortocircuito fra cinema e realtà. In mezzo, altri suoni e immagini rapsodiche, sempre commentate (come le altre) dalla voce quasi ipnotica di Cioni: i primi piani di una rana, il gracidare delle rane che l’autore immagina come discorsi sottotitolati, il fluire placido del mare, altre immagini che sembrano installazioni video-artistiche, filmini delle vacanze di persone qualsiasi in spiaggia, ignare delle tragedie che vi si consumano e vi si sono consumate poco distante. Il montaggio è talmente accurato, quasi invisibile, che spesso risulta volutamente impossibile distinguere fra le immagini di repertorio su Voronoff e le immagini tratte dai film, tutte in B/N o in virato seppia: L’isola delle anime perdute di Kenton – ispirato al Dottor Moreau, lo scienziato pazzo della letteratura che ha così tanti tratti in comune con Voronoff – ma anche Femmine folli di Erich von Stroheim e King Kong di Schoedsack e Cooper (il più riconoscibile), e altri ancora. Titoli che apprendiamo dai crediti finali del film, e che non sono indicati in sovraimpressione, come a voler confondere appositamente lo spettatore e lasciarlo senza punti di riferimento, costantemente sospeso tra realtà e finzione, come tutto il film. La villa di questo mad-doctor russo – che pare davvero uscito dai più terrificanti film della Hammer o di Jess Franco – e le sinistre gabbie delle scimmie sono ancora oggi visibili sul confine tra Ventimiglia e Mentone, per cui Cioni alterna continuamente le immagini di ieri e di oggi creando un unicum di poesia filmata così suggestiva e terribilmente macabra.
Non mancano momenti molto crudi, come le immagini vintage delle scimmie catturate con le corde, spezzoni che mostrano gli esperimenti (documentari o film?), e la bambina inquadrata in mezzo ai teschi, che conferiscono al film un carattere quasi da mondo-movie, quel famigerato genere cinematografico italiano tanto in voga tra gli anni Sessanta e i Settanta. Ma si tratta sempre di scene rapsodiche, impressioniste, paratattiche, le quali non raccontano linearmente la storia di Voronoff, ma ci danno alcune suggestioni e informazioni di base per invitarci a ricostruire quell’orrore e i motivi che hanno spinto lo scienziato ad agire in quel modo, prima di essere cacciato da Mussolini per la sua origine ebraica. I quali motivi sono poi la ricerca del ringiovanimento e del prolungamento della vita, tutte cose impossibili che siamo abituati a vedere nei film di fantascienza o a leggere in libri di fantasia, ma che invece sono state tentate (ovviamente con esiti disastrosi) anche nella realtà, in una vicenda poco conosciuta e che Dal pianeta degli umani contribuisce a portare alla luce. Una storia che si intreccia continuamente con quella dei migranti, il cui sentiero è percorso dal regista con la macchina da presa e narrato in una continua alternanza con la storia di Voronoff. Ci sono poi accostamenti fra realtà e film particolarmente azzeccati, come le scene girate fuori dal teatro di Sanremo e giustapposte in montaggio con la scena di King Kong dove il gigantesco scimmione si libera dalle catene e fugge seminando il panico. Il significato è chiaro, quasi satirico, con la gente di oggi in cerca di moderne attrazioni (la musica e lo spettacolo), così come i protagonisti del film erano in cerca di forti emozioni vedendo incatenato il mostruoso gorilla. Il tutto è accompagnato da musiche ipnotiche, evocative, dissonanti, in un perfetto accompagnamento di questa storia che arriva sì dal pianeta degli umani, ma al contempo è sospesa in un “altrove” impossibile da identificare razionalmente, come appunto in un sogno.
Davide Comotti