Vite al confine
A meno di 24 ore dal suo battesimo di fuoco nel concorso della 77esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica, laddove ha raccolto pareri piuttosto discordanti da parte della critica, Notturno si è subito affacciato nelle sale con 01 Distribution per sfruttare l’onda d’urto della proiezione veneziana, in attesa di tuffarsi in un tour festivaliero che lo vedrà partecipare a un ciclo di presentazioni in vetrine prestigiose come le kermesse di Londra, New York, Toronto, Telluride, Busan e Tokyo. Ciclo che dimostra l’ormai consolidata attenzione rivolta, dentro e soprattutto fuori dalle mura “amiche”, nei confronti di un regista che è andato ad occupare grazie ai lavori precedenti (da Below Sea Level a Fuocoammare, passando per Sacro GRA) una posizione di rilievo nel panorama mondiale.
Al suo sesto documentario di lungometraggio, Gianfranco Rosi ha deciso di alzare ulteriormente l’asticella del coefficiente di difficoltà, spingendosi molto in là dai confini nazionali per andare a esplorare quelli martoriati di Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Il risultato è un viaggio fisico ed emozionale in Medio Oriente, realizzato nell’arco degli ultimi tre anni, per raccontare la quotidianità che sta dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS. La mission di Rosi è stata dunque quella di rivolgere lo sguardo suo e della sua cinepresa verso altro che non fossero le conseguenze dirette dei conflitti come morti ammazzati, fosse comuni, mutilazioni e torture, bensì quelle che si palesano all’occhio umano – e in questo caso dello spettatore – sotto forma di lacerazioni non cicatrizzate su luoghi e persone. Motivo per cui l’autore lo ha definito «un film di luce sul buio delle guerre e dai materiali oscuri della storia». Un film che sceglie di concentrarsi unicamente sulle umanità che ne sono vittime e che si ridestano ogni giorno da un notturno che pare infinito. Da qui il titolo di un’opera che sceglie il controcampo, quello meno d’impatto e devastante, atroce e diretto di un The Cave, per mostrare al mondo i segni tangibili di violenze e distruzione, ma anche ciò che resta dentro le coscienze.
Tutto questo fa di Notturno un film sulle “macerie” visibili e invisibili, quelle che si possono “leggere” sulle pareti e i tetti dei palazzi sventrati di città bombardate e depredate dalla furia guerrafondaia, le cui detonazioni giungono alle orecchie provenienti dall’orizzonte o da panorami lontani, ma soprattutto sui corpi e nelle menti di adulti e giovani, le cui esistenze sono state spezzate, violate e ieri come oggi messe a dura prova da una continua lotta per la sopravvivenza. Per dare forma e sostanza al tutto, Rosi ha come da consuetudine immerso se stesso e l’hardware nel tessuto umano e topografico che ha scelto di esplorare. Un’esplorazione che attraversa, penetra o si sedimenta nei microcosmi nascosti, quelli messi da parte e non toccati dalle pagine della Storia con la “S” maiuscola. Da qui una scomposizione di prospettive “diverse” sugli ultimi, sui dimenticati, alle quali la narrazione conferisce un’unità che va al di là delle divisioni geografiche. Infatti non c’è lungo la timeline e nel suo palleggio insistito tra le storie nessun marker o identificativo grafico, semmai ci sono tracce e simboli che consentono di volta in volta al fruitore di capire dove la macchina da presa è andata a filmare.
E sta nella grande capacità del regista di origini eritree di andare a scovare quei microcosmi invisibili (un teatro in un ospedale psichiatrico, dando a coloro che li popolano un volto e una voce negata, il merito del suo cinema e il punto di forza di Notturno. L’osservazione rigorosa, il pedinamento costante e l’approccio alla materia sono quelli di sempre, gli stessi elementi che Rosi ha fatto suoi e applicato ogni volta che ha deciso di prendere in mano la cinepresa. Ricorrenze e stilemi che stanno rendendo il suo lavoro in tutto e per tutto personale e riconoscibile, ma sempre più uguale a se stesso. Un modus operandi che al coraggio di certe scelte, alla potenza di certe immagini anche evocative o stratificate nel significato, ha iniziato a palesare le sue crepe, i suoi “peccati di gola” e le sue “cattive abitudini”. Come in passato il mettere “in posa” togliendo verità e naturalezza al soggetto, alle sue parole e alle sue azioni, così come la costruzione a tavolino di certe situazioni in cui l’autore stralcia il patto con il reale (su tutte la visita di una madre nella prigione dismessa dove è stato torturato e ucciso il figlio, oppure il commento dei disegni che raffigurano le atrocità commesse dai soldati dell’ISIS appesi alla parete di una classe da parte di un bambino), sono qualcosa che il pubblico fa fatica a digerire e che più volte la critica, noi compresi, ha identificato come tallone d’Achille. Ciononostante, l’autore ha deciso di continuare per la sua strada come è anche giusto che sia, conscio che tali scelte avranno sempre delle ripercussioni negative sul giudizio finale di quella fetta di addetti ai lavori che non le condivide, vedendo in esse l’espressione e la reazione di un’autorialità ottusa ed egocentrica.
Francesco Del Grosso