Splendido documentario a ricordarci la tragedia dei rifugiati
Amin Nawabi è lo pseudonimo con cui conosciamo un afghano che, da molti anni, vive in Danimarca. Sta per sposarsi con il suo compagno eppure, nonostante la sua vita stia procedendo per il meglio, il suo oscuro passato continua ad angosciarlo, tanto da mettere a repentaglio il rapporto sentimentale che ha con Kasper il quale, pur amandolo, ne percepisce la crescente lontananza e angustia. La sua incredibile e dolorosa vicenda emerge quando accetta di parlare con il vecchio amico Jonas Poher Rasmussen, il quale decide di realizzare un documentario dove Amin, finalmente, riesce a confessarsi e a liberarsi dei pesi che gravano sul suo animo.
Questa è una storia personale ma, al tempo stesso, quella di un intero popolo. L’Afghanistan, infatti, vive in uno stato pressoché continuo di guerra fin dagli anni ‘80. Prima la presa del potere, alla fine degli anni ‘70, del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan. Rovesciato il presidente in carica, questa forza politica di matrice comunista si scontra con i guerriglieri Mujaheddin. Malgrado il massiccio appoggio militare dell’Unione Sovietica, il governo viene schiacciato dai ribelli dopo una lunga guerra civile. Amin fugge con la sua famiglia, già provata, per evitare la persecuzione di stampo fondamentalista che sta ormai soffocando il paese. Il rifugio è Mosca, ma si rivela essere un limbo buio in cui ad attenderli ci sono altre sofferenze: il comunismo è caduto, la Russia è sul lastrico e la corruzione attanaglia la polizia. Vessazioni, ricatti, minacce sono all’ordine del giorno. Gli agenti sono il vero terrore per i profughi afghani che, così, pianificano la loro fuga verso l’Europa. Ci vorranno anni per riuscire a scappare, tra speranze frustrate, soldi che non bastano mai, trafficanti di esseri umani senza scrupoli e infernali viaggi in cui si rischia la pelle.
Flee, questo straordinario film d’animazione che ha vinto quale miglior documentario al Sundance Film Festival del 2021, è davvero un’opera che fa profondamente riflettere. La voce narrante di Amin accompagna le immagini che danno forma a un’esperienza di cui noi europei ci siamo completamente dimenticati. I disegni ricalcano uno stile adulto, più vicino a quello di una graphic novel, facendoci scorrere davanti gli occhi quella è una lenta ma costante discesa negli inferi delle miserie umane. La fuga (esattamente il titolo della pellicola) è il comune denominatore di una vita passata a nascondersi, senza mai fidarsi di nessuno. Accompagnato dalla paura di essere scoperto e distrutto. La sua omosessualità da celare alla famiglia, i suoi fratelli che scappano da polizia e soldati, sua madre che deve recludere per anni i propri figli nello squallido appartamento di Mosca. Infine, la menzogna più grande: dichiarare di essere orfano, mentire per non essere rimpatriato una volta giunto a Copenaghen dopo innumerevoli sacrifici. Per liberarsi dal terrore che da sempre lo insegue deve smettere di scappare, anche da sé stesso. Parlare con Rasmussen, concedergli le lunghe interviste, aprirsi dopotutto alla verità, è catartico e, probabilmente, l’unico modo per lasciarsi realmente alle spalle un’esistenza da uomo braccato.
L’angoscia del protagonista, il terrore che ancora emana dal suo racconto, attanagliano lo spettatore e lo tengono incollato allo schermo.
Al termine di questo estenuante viaggio, non possiamo non domandarci quanti Amin vediamo, senza accorgercene, quanti di essi non ce l’hanno fatta, quanti ancora cercano disperatamente un mondo migliore dove trovare un po’ di pace. Come anche è impossibile non chiederci se non stiamo dando fin troppo per scontate le comodità e le libertà di cui godiamo, abituati a una società che forse, con tutti i suoi difetti, non sappiamo più apprezzare come dovremmo.
Massimo Brigandì