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Che fare quando il mondo è in fiamme?

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VOTO: 7.5

La Storia torna a ripetersi

Italiano di nascita, ma statunitense di adozione, il giovane Roberto Minervini è, di fatto, una delle eccellenze del nostro paese emigrate all’estero. Grazie al suo singolare modo di fare cinema, il regista è riuscito in pochissimi anni a farsi notare all’interno del panorama cinematografico mondiale, ottenendo anche importanti riconoscimenti presso i maggiori festival internazionali. Ed ecco che, in occasione della 75° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il cineasta ha presentato in anteprima mondiale il suo quinto lungometraggio, Che fare quando il mondo è in fiamme? (titolo internazionale What You Gonna Do When the World’s on Fire?, con il quale concorrerà per aggiudicarsi il tanto ambito Leone d’Oro.
Ci troviamo negli Stati Uniti, nell’estate del 2017. Una serie di efferate uccisioni ha scosso l’intera popolazione, al punto da spingere le Black Panthers a organizzare una serie di manifestazioni contro la brutalità della polizia stessa. Questo clima di inquietudine viene rappresentato – in un curatissimo bianco e nero e con un costante uso di camera a spalla, dove fanno da padroni assoluti intensissimi primi piani – attraverso gli occhi dei componenti di una famiglia di afroamericani, i quali – analogamente ai loro connazionali – hanno fortemente risentito delle pericolose reazioni scatenate dalla politica di Donald Trump.
Con il suo consueto e personalissimo modo di fare cinema, Minervini riesce a far sì che ognuno di noi diventi parte del mondo da lui messo in scena. E, a tal proposito, anche il termine “messa in scena” non è del tutto appropriato. Quello che il giovane cineasta fa, infatti, è scegliere semplicemente dalla strada i propri personaggi e seguirli nella loro quotidianità, portando all’estremo le teorie zavattiniane circa il pedinare i singoli personaggi. Nulla è inventato, tutto è realmente così, come ci appare sul grande schermo. Cinema del reale allo stato puro, in cui non si sa mai realmente dove possa situarsi il confine tra finzione e documentario. In cui ci si appassiona alle vicende messe in scena, ma, allo stesso tempo, si ha modo di conoscere a fondo la realtà presentataci.
Un cinema di denuncia, questo realizzato da Minervini. Un cinema innovativo e coraggioso, in cui la macchina da presa non ha paura di varcare nemmeno i confini più invalicabili, dove davvero a pochi è consentito l’accesso. Così è stato, ad esempio, anche in questo suo ultimo lavoro, dove il regista si è addentrato all’interno di comunità di neri che vivono ai margini della società e che, ogni giorno, lottano per poter arrivare a fine mese e garantire una vita dignitosa ai propri cari.
Al di là dell’attuale tema politico trattato, al di là dell’ambientazione scelta, ciò che maggiormente differenzia Che fare quando il mondo è in fiamme? dai precedenti lavori di Minervini è – come già accennato – proprio la scelta del bianco e nero. Perché, dunque, di fianco a un cinema tanto vicino al reale, optare per una simile soluzione? Semplice: per dare l’idea allo spettatore che ciò che si sta raccontando non è soltanto una storia – o, meglio ancora, una situazione – legata esclusivamente ai giorni nostri, bensì un qualcosa che, a seconda delle epoche, a seconda delle stagioni, continua e continuerà sempre a ripetersi. Segno che l’umanità pecca eccessivamente di una scarsa memoria storica. Segno che, malgrado tutto, non si riesce mai a imparare dal passato. Segno che, forse, sarebbe ora di riflettere sul perché si tendano a commettere sempre gli stessi errori. E, a tal proposito, la presente, necessaria opera di Minervini vorrebbe incitare, a suo modo, a riflettere, ad agire, a combattere per i propri diritti. Fino a prova contraria, uno dei tanti poteri della Settima Arte.

Marina Pavido

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