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Candyman

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VOTO: 6.5

Il nero angelo della morte

Prima dell’uscita nel nuovo Candyman ci si chiedeva quanto e in quali modalità la mano di Jordan Peele – per l’occasione sceneggiatore e produttore di un lungometraggio affidato alla regia della quasi esordiente Nia DaCosta – potesse influenzare la nuova entrata in scena di una delle figure di maggior riferimento del panorama orrorifico degli anni novanta. La risposta, pressoché inevitabile, è in maniera sostanziale. Il Candyman 2021 è tecnicamente un sequel del cult primigenio diretto da Bernard Rose nel 1992; ma per il messaggio che veicola si tratta di un vero e proprio aggiornamento socio-politico di uno dei vilain di maggior impatto nella storia del cinema di genere. Un’operazione ardita che parte da un presupposto quantomai chiaro ed evidente: il personaggio di Candyman è ormai un simbolo perfettamente assimilato nella cultura afroamericana. Un’icona di vendetta nei confronti dell’egemonia bianca ma non solo. Perché la credibilità del discorso di Peele si fa molto interessante una volta preso atto che in Candyman 2.1 l’intera vicenda si svolge nel’ambito della borghesia afroamericana, non lasciando in pratica alcuna traccia esplicita del conflitto razziale ben presente invece sia nel film del 1992 che nel racconto ispiratore di Clive Barker “The Forbidden”. Il senso di colpa sotteso che affliggeva la protagonista Virginia Madsen nell’opera primigenia viene dunque traslato nella borghesia integrata di colore, con tutti gli annessi e connessi del caso. Il Cabrini Green, quartiere periferico e disagiato che fungeva da ambientazione primaria per le scorribande del “mostro”, è stato riqualificato ed è divenuta una zona residenziale. E tuttavia lo spirito inquieto di Candyman continua ad aleggiare. Come scoprirà a proprie spese l’artista d’avanguardia Anthony, afroamericano destinato ad un’autentica esperienza di reviviscenza della tragedia subita dal personaggio originale. Un calvario dall’aspetto sacrale – la sequenza madre, non a caso, si svolge nella chiesa del Cabrini Green – che attesta in maniera definitiva come Candyman sia anche una figura dall’aura nemmeno troppo vagamente religiosa, un messia nero intenzionato a riportare ordine attraverso un pesante tributo di sangue.
Il Candyman di Nia DaCosta compie dunque un’operazione, sia a livello concettuale che formale, assai simile a quella realizzata da Jennifer Kent (non a caso un’altra regista donna…) con Babadook (2014). Accettare cioè il fatto che la mostruosità faccia parte della normalità, della vita quotidiana. Per conviverci a stretto contatto, trovando un qualsiasi modo di sopravvivere assieme ad essa. La nuova versione di Candyman, lavorando su binari di pura astrazione – quelle ombre cinesi, palesemente eterodirette con un forte sottotesto politico, che rievocano di continuo, nel corso del film, la tragica vicenda esistenziale di Candyman, torturato ed ucciso per aver osato desiderare una donna bianca – corre il serio rischio di deludere i fan del film di Rose (ma pure dell’affatto disprezzabile sequel di Bill Condon, datato 1995), in cui sangue e carnalità giocavano un ruolo essenziale.
Pur soffrendo un evidente sbilanciamento tra la parte preparatoria ed il climax di violenza che permea una parte finale in cui ricompare, per pochi istanti, l’inimitabile Candyman originale Tony Todd; e non riuscendo nemmeno a sfiorare quell’equilibrio tra opera d’autore e film di genere che lo avrebbe reso un altro oggetto di culto potenzialmente resistente all’usura del tempo, il Candyman targato DaCosta e Peele riesce comunque a proporsi come interessante opera dalle significative valenze morali, per nulla banale riflessione sui molteplici modi nei quali la società contemporanea cannibalizza le proprie mitologie, trasformandole in altro secondo le proprie esigenze del momento. Moda e modernità quasi mai riescono a marciare con il medesimo passo, lo sappiamo bene.

Daniele De Angelis

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