You can’t get rid of The Babadook
Presentato in concorso al Torino Film Festival edizione trentadue, Babadook (nella versione italiana si smarrisce l’articolo) è ormai divenuto un vero e proprio fenomeno, alimentato anche da pareri autorevoli, come quello di William Friedkin, che l’ha definito “l’horror più spaventoso che abbia mai visto”. Non c’è nulla di più soggettivo della percezione della paura, e ciò che risulta terrificante per qualcuno, può suscitare reazioni opposte in qualcun altro: senza nulla togliere al grande Maestro statunitense, è sempre questione di gusti. Aggiungendo inoltre che The Babadook ha più di un debito nei confronti di uno dei suoi capolavori, ossia L’esorcista, attingendo comunque da una bella fetta di repertorio orrorifico, degli anni ’70 fino ad oggi.
Ci si trova di fronte al lungometraggio d’esordio dell’australiana Jennifer Kent, già attiva come attrice da circa vent’anni, in ruoli non troppo di rilievo per film dalle alterne fortune; in un’intervista rilasciata al website della rivista Empire, la regista ha dichiarato che il suo vero e proprio apprendistato riguardante il timone della macchina da presa ha avuto luogo sul set di Dogville (2003) di Lars Von Trier, dunque non una pellicola e un regista qualsiasi.
The Babadook, a una prima visione, tende a risultare affascinante, in alcuni punti anche piuttosto spaventoso – in primis grazie all’ottimo lavoro sul suono, a opera di Frank Lipson – ottimamente confezionato e con performances convincenti. Rivedendolo una seconda volta però, dunque osservandolo in maniera più attenta, ecco che le pecche, soprattutto di sceneggiatura (firmata dalla stessa Kent) non tardano a manifestarsi. Si narra di Amelia (buona l’interpretazione di Essie Davis), inserviente in un ricovero per anziani, che non ha ancora superato la tragica perdita del marito, avvenuta sette anni prima in coincidenza con la nascita del figlio Samuel (efficace la scelta di Noah Wiseman): l’uomo, infatti, è deceduto in un incidente d’auto mentre accompagnava Amelia in ospedale per il parto. Un punto di partenza melodrammatico ma anche fortemente emotivo, che se ben gestito, poteva dar vita a un personaggio femminile assai interessante. Il piccolo Samuel è bambino tanto affettuoso quanto problematico, che costruisce balestre ed altre armi “giocattolo” per difendersi da un fantomatico mostro che popola i suoi incubi: il babau tuttavia, arriverà sul serio, dalle pagine di uno strano libro e con una macabra fiaba. Ecco dunque il babadook, l’uomo nero, la cui figura, pagina dopo pagina, si fa sempre più minacciosa, violenta e inquietante: il plot si concentra dunque sulla creatura del titolo, che invade a tutto tondo le vite di Amelia e Samuel.
Come si diceva, lo spunto di partenza poteva far prendere corpo a una figura di donna sfaccettata, e con un ottimo potenziale di analisi del personaggio: la Kent, purtroppo, fallisce il bersaglio nel delineare un’ Amelia che risulta anche fastidiosa, nel suo essere tremendamente passiva, lamentosa, incapace di andare avanti dopo la perdita del marito e non in grado di gestire un figlio tanto difficile quanto dotato di un brillante intelletto. La stessa sorte tocca alla rappresentazione di Samuel, che dopo un buon inizio finisce per risultare anch’ egli un tantino irritante, tra urla fuori luogo e isterismi troppo sopra le righe. Ciò causa difficoltà, da parte dello spettatore, nello stabilire un forte legame empatico con i personaggi, elemento necessario in narrazioni dalla spiccata componente emotiva: sia Amelia che la sorella “più fortunata” e inevitabilmente antipatica, Claire (Hayley McElhinney), sono figure eccessivamente a tutto tondo, sulle quali non viene eseguito quel lavoro di analisi che ci si aspetterebbe da una regista di sesso femminile, dunque particolarmente vicina alle sue protagoniste. Samuel ispira per lo più tenerezza, anche per le caratteristiche fisiche del piccolo Wiseman, dal volto particolarmente espressivo.
The Babadook parte bene, anche grazie all’azzeccata idea dell’inquietante libro, ora pubblicato come oggetto di merchandising, ma finisce per sfilacciarsi in quanto non supportato da uno script sufficientemente robusto e incisivo. Paradossalmente, il declino del film inizia proprio con la comparsa del mostro – dai forti echi burtoniani – che conduce a snodi troppo risaputi. Come già accennato, il punto di forza della pellicola risiede nel suono, in quel “Ba ba dook – dook –dook!” stridulo e cavernoso, che resta con lo spettatore anche a visione terminata. Vi sono numerosi omaggi, nei film che Amelia guarda in tv nelle sue serate inesorabilmente solitarie con l’immancabile scatola di consolatori cioccolatini: da Méliès a Mario Bava, la cineasta mette in evidenza i propri riferimenti filmici.
The Babadook può dunque conquistare nell’immediato, ma porta sul retro la data di scadenza, in quanto ha un contenuto facilmente deperibile. Buono sotto molti punti di vista, mediocre per molti altri, indubbiamente sopravvalutato.
Chiara Pani