Qual è il ‘limite’?
«Molte cose non potrò esprimerle con l’intensità che vorrei, perché il dolore prostra, vuota, abbrutisce, distrugge, come dell’acido solforico versato sull’anima» scriveva Carlo Emilio Gadda nel “Giornale di guerra e di prigionia”. Lo scrittore di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” partì volontario arruolandosi nel Regio esercito, dove fu inquadrato come sottotenente della seconda sezione dell’89º reparto mitragliatrici del 5º reggimento alpini, venendo dislocato nelle zone arretrate del fronte sull’Adamello e sulle alture vicentine. L’ultimo lavoro di Gianni Amelio, Campo di battaglia, tra gli italiani in concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fa venire in mente alcuni autori di quegli anni, compresi alcuni versi di Ungaretti (in più il film è liberamente ispirato a “La sfida” di Carlo Patriarca, edizioni Beatbestseller).
Ci si sta avviando alla conclusione della Prima Guerra Mondiale. Due ufficiali medici, amici d’infanzia lavorano nello stesso ospedale militare, dove ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Stefano Zorzi (Gabriel Montesi), di famiglia altoborghese, con un padre che sogna per lui un avvenire in politica, è ossessionato da alcune idee anche molto rigide («il primo autolesionista lo dovevamo giustiziare sul posto», asserisce), da un senso del dovere per cui lo spettatore (e non solo) si interroga quale sia il limite. Giulio Farradi (Alessandro Borghi), apparentemente più comprensivo e tollerante, non si trova a proprio agio alla vista del sangue, è più portato verso la ricerca e questa sua attitudine tornerà utile nel corso della storia. Sin da subito si intuisce un approccio differente verso il malato. Chi arriva, infatti, può essersi davvero fatto male sul campo o, pur di non continuare a combattere, essersi procurato autonomamente le ferite. Mente qualcosa di strano accade in questi stanzoni, arriva Anna (Federica Rosellini), che nasconde qualcosa di irrisolto – un po’ come ognuno di loro – ed è amica dei due ufficiali (Stefano di grado superiore a Giulio). Campo di battaglia mostra, con una cura anche nella resa fotografica (Luan Amelio Ujkaj) e nella ricostruzione degli spazi (scenografia Beatrice Scarpato, arredamento Lia Canino), quale fosse la condizione di chi ‘sopravvive’ al conflitto in campo sia dal punto di vista dei soldati (con provenienze regionali differenti, idee di dedizione che possono essere messe in discussione) che di Stefano, Giulio e Anna. Con la vicenda di quest’ultima, si riconosce la difficoltà di una donna nel farsi rispettare e prendere in considerazione (lavora come volontaria per la Croce Rossa) e ci si riconosce negli interrogativi che si pone (la Rosellini è espressiva anche nei silenzi, brava nel rendere i conflitti interiori e il mutamento del suo personaggio).
Sul fronte di guerra, proprio verso la fine del conflitto, si diffonde una specie di infezione che colpisce più delle armi nemiche, estendendosi senza controllo. Unendo varie prospettive, il lungometraggio induce a riflettere su come il ‘campo di battaglia’ possa essere sì fisicamente in guerra, ma anche diventarlo un posto in montagna dove ci si dovrebbe curare, a cui si aggiungono quello tra gli esseri umani e interiore.
«O ferito laggiù nel valloncello,/tanto invocasti/ se tre compagni interi/ cadder per te che quasi più non eri./ Tra melma e sangue/ tronco senza gambe/ e il tuo lamento ancora,/ pietà di noi rimasti/ a rantolarci e non ha fine l’ora,/affretta l’agonia,/ tu puoi finire,/ e nel conforto ti sia/ nella demenza che non sa impazzire,/ mentre sosta il momento/ il sonno sul cervello,/ lasciaci in silenzio/ grazie, fratello» “Viatico” di Clemente Rebora.
Maria Lucia Tangorra