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Brighton 4th

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VOTO: 8

 

Prigionieri del Caucaso, prigionieri del sogno americano

Grazie a piccole realtà come Invisible Carpet qualche film di interesse superiore alla media riesce ogni tanto a farsi strada, come agitando un machete nella boscaglia, tra le fitte selve di una distribuzione italiana sempre più tendente alla mediocrità, alle scelte facili, al grigio orizzonte dell’appiattimento culturale. Tale è senz’altro il caso di Brighton 4th del cineasta georgiano Levan Koguashvili. A qualcuno potrà suonare magari strano che un lungometraggio del genere, accolto con una marea di premi sia al Tribeca che ad altri festival di livello internazionale, abbia avuto l’8 febbraio la sua anteprima italiana in un piccolo cinema d’essai qual è a Roma il Tiziano, per giunta col regista venuto da fuori presente in sala. Visto l’andazzo generale c’è poco da stupirsi. Ne approfittiamo semmai per consigliare ai concittadini di tenere d’occhio questa ormai storica saletta, ottima sia per recuperi di film importanti che per qualche insolita scelta di programmazione…
A cominciare, magari, proprio da Brighton 4th, da noi perso la sera della premiere ma recuperato – sempre al Tiziano – in appena un paio di giorni, sfruttando il fatto che lì verrà proiettato almeno fino a giovedì 15 febbraio. Ed è stato da parte nostra amore a prima vista. Sì, perché al talento registico che i migliori cineasti di quella montuosa area geografica possono vantare abbiamo visto associato uno sguardo sull’America assolutamente spigliato, non convenzionale, persino rivelatore nella sua umbratile e malinconica essenza; una prossimità di sguardo, insomma, dovuta probabilmente anche al fatto che Levan Koguashvili la realtà di Brighton Beach, dove sono confluiti parecchi immigrati provenienti dai paesi dell’ex Unione Sovietica, la conosce molto da vicino.

Il film comincia comunque in Georgia, a Tbilisi. E la primissima sequenza, intrusione della macchina da presa in un universo maschile tanto rude quanto ombroso, quasi disperato, trascina lo spettatore in un fatiscente locale dove si seguono eventi sportivi e ci si scommette sopra con accanimento. Proprio la scommessa persa da uno dei protagonisti ci fa entrare nel vivo della questione…
Tramite lui facciamo la conoscenza di una famiglia come tante, intimamente scissa, poiché alcuni sono rimasti lì nella capitale e altri sono dovuti emigrare negli Stati Uniti, in cerca di una “miglior fortuna” che però tarda ad arrivare. Il vettore principale del racconto diviene praticamente da subito un parente stretto del personaggio comparso all’inizio, ovvero il più anziano Kakhi (a impersonarlo un Levan Tediashvili a dir poco maestoso), saggio e misurato ex campione di lotta del proprio paese (con importanti precedenti olimpici ricostruiti grazie a vecchi filmati in bianco e nero) che ha in programma di recarsi presto a New York per andare a trovare suo figlio Soso (Giorgi Tabidze), il quale vive a Brighton Beach presso Brooklyn assieme ad altri immigrati delle vecchie repubbliche sovietiche, soprattutto quelle del Caucaso e dell’Asia centrale. Prima della partenza del vecchio campione per il Nuovo Mondo, però, il regista ha tempo di regalarci alcune sequenze oltremodo suggestive, piccoli scorci di un universo post-sovietico mestamente tramontato da un pezzo. Troneggia, su tutte le altre, la surreale, mirabolante scena dei giovani sportivi impegnati ad allenarsi in gruppo, lungo i corridoi e le balconate di un edificio in rovina.

Al suo arrivo in America il buon Kakhi troverà una situazione alquanto compromessa, col poco attento, scialacquatore e per nulla volitivo figlio Soso impegnato a rovinarsi la vita, dopo aver accumulato per l’attitudine al gioco (un vizio di famiglia, a quanto pare) debiti su debiti con alcuni tizi, niente affatto raccomandabili, poco inclini a soprassedere e appartenenti probabilmente alla Mafia russa. Sarà quel brav’uomo del padre, forte di un’etica che non è stata trasmessa evidentemente alle nuove generazioni, ad adoperarsi in prima persona per risolvere tutto, a costo di gravi sacrifici personali.
Ciò cui assistiamo nel corso della lunga parentesi americana è comunque uno sbalorditivo moltiplicarsi di sguardi, un continuo avvicendarsi di epifanie, corrispondenti peraltro ai tanti personaggi minori tratteggiati con umanità e garbo (laddove anche un “villain”, alla faccia di qualsiasi manicheismo, può essere ritratto in chiaroscuro e non necessariamente demonizzato) fino a comporre un mosaico dell’emigrazione tanto sfaccettato quanto vitale. Del resto, ce lo aveva insegnato il compianto Balabanov di Brat 2, quando lo sguardo di un regista dell’Europa Orientale si poggia sugli Stati Uniti la mitopoiesi che ne deriva è di quelle che non lasciano indifferenti. Suggerendo a volte con mestiere e malizia quale possa essere il Lato Oscuro del cosiddetto American Dream. Succede più o meno la stessa cosa in Brighton 4th, allorché si approda a quel finale dolente, ieratico, laddove la musica stessa preserva e amplifica un’eco struggente del Caucaso.

Stefano Coccia

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