Nella città l’inferno
Se durante i primi giorni di questa trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, la sperimentale sezione Onde – contrariamente a quanto accaduto nelle scorse edizioni – aveva spesso fatto storcere il naso a pubblico e critica, ecco, finalmente, un prodotto a suo modo innovativo, ma non eccessivamente sperimentale, particolarmente intimistico e curato nella messa in scena, nonché promettente opera prima del giovane regista cinese Jie Zhou. Stiamo parlando dell’interessante Blue Amber, tratto dal romanzo “The Life of 240 Months” di Yigua Zhu.
Ciò che il regista ha voluto mettere in scena è, di fatto, un lutto e l’elaborazione di esso, seguita da uno straziante desiderio di vendetta. È questo lutto vissuto da Lotus, giovane maestra di asilo, la quale ha visto morire suo marito a soli 32 anni investito da una macchina. In seguito alla perdita, la donna ha ricevuto un indennizzo, si è licenziata dal suo posto di lavoro e ha iniziato a lavorare come governante presso una famiglia dell’alta borghesia, calcolando ogni giorno il reale valore in denaro della vita di suo marito, in base al numero di anni in cui è vissuto e meditando, allo stesso tempo, vendetta nei confronti della coppia che lo ha ucciso e, più in generale, di ogni famiglia alto-borghese.
Particolarmente d’effetto, a tal proposito, i momenti in cui vediamo la giovane – con fare quasi hitchcockiano – osservare con un binocolo le finestre aperte degli appartamenti del palazzo di fronte al suo oppure origliare, di notte, le conversazioni della coppia che la ospita in casa propria e per la quale lavora. E così, con un frequente alternarsi di flashback e scene ambientate nel presente, entriamo anche noi all’interno della quotidianità della protagonista, vivendo in prima persona il dolore della sua perdita e osservando in prima persona anche i momenti felici trascorsi insieme a suo marito, prima della tragedia. Particolarmente d’effetto, a tal proposito, la scelta, da parte del regista, di conferire ai due livelli temporali una riuscita discontinuità fotografica: una luce calda e famigliare, ad esempio, caratterizza i momenti in cui la giovane viveva in casa con il marito, la suocera e il loro cagnolino. Tutto cambia, invece, per quanto riguarda le scene ambientate nel presente: è una luce fredda, che – unitamente a una città invasa dallo smog e con palazzi talmente alti e imponenti da dare l’impressione che il singolo essere umano abbia un’importanza quasi pari a zero all’interno della stessa città in cui vive – caratterizza le giornate di una solitaria e disperata Lotus, la quale, a sua volta, continua a tornare con la mente alla sua vecchia casa, rappresentata quasi come una sorta di isola felice all’interno di quella spiazzante distesa di cemento e grattacieli che è la città stessa.
Per l’accurata e sapiente regia – dove, sovente, ci vengono mostrati gli stessi personaggi attraverso i vetri di una finestra o da dietro una porta semi aperta o una tenda appena scostata (come, a suo tempo, lo stesso Wong Kar-wai ha fatto, d’altronde) – oltre che per la grande maestria nel raccontare un tormento interiore senza che la stessa messa in scena risenta di fatti eccessivamente impliciti, questo prezioso lavoro di Jie Zhou spicca all’interno di un programma già di per sé complessivamente buono. E pensare che si tratta soltanto dell’opera prima di un regista che in passato non ha neanche frequentato una scuola di cinema. Quando c’è il talento, d’altronde…
Marina Pavido