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Bad Poems

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VOTO: 7

I dolori del giovane Tamas

Parigi, si sa, oltre a essere la città che per prima ha visto la prima proiezione cinematografica della storia, è, a tutti gli effetti, anche la città dell’amore. È qui che molte coppie si sono incontrate la prima volta, si sono innamorate o hanno vissuto momenti indimenticabili. Lo stesso è accaduto a Tamas, trentatreenne di Budapest che nella Ville Lumière ha incontrato la sua Anna. Romantico? Indubbiamente. Peccato, però, che, dopo una lunga storia definita “un miracolo”, Anna ha lasciato, di punto in bianco, il nostro Tamas, costringendolo a fare ritorno nella sua città e a riflettere – ripensando alla sue esperienze passate, dalla prima infanzia, fino all’età adulta – sulla difficoltà di portare avanti una storia d’amore, sul senso della vita e, più in generale, sull’impossibilità di essere felici. La storia di un abbandono e di un ragazzo in piena crisi sentimentale, dunque, che – nascendo da spunti autobiografici, come anche il fatto che sia lo stesso autore a vestire i panni del protagonista sta a testimoniare – è stata messa in scena in Bad Poems dal giovane cineasta ungherese Gábor Reisz (qui alla sua opera seconda) e che, in occasione della trentaseiesima edizione del Torino Film Festival, è stata presentata all’interno del concorso Torino 36.

Non accade di rado che a un regista venga voglia di raccontare per immagini travagliate storie d’amore – meglio se autobiografiche – o, più in generale, riflessioni stesse sul sentimento più nobile del mondo. Tutto sta, di fatto, nel vedere come la cosa venga messa in scena. Dal canto suo, dunque, Reisz ha attinto a piene mani da ciò che in passato hanno realizzato autori come Michel Gondry o Charlie Kaufman, dando vita a qualcosa di totalmente (o quasi) nuovo e personale e avvalendosi della possibilità di giocare con numerosi effetti in digitale, senza aver paura di strafare. Al via, dunque, bizzarre suggestioni visive, momenti onirici che si mescolano a scene prese direttamente dalla realtà, senza dimenticare la presenza di frequenti flashback (a tal proposito, particolarmente degna di nota è proprio la scena iniziale, in cui vediamo il protagonista ripercorrere con la mente – e a ritroso – tutte le volte che la sua ragazza gli ha semplicemente detto “ciao”, fino ad arrivare al momento stesso in cui si sono conosciuti). A intervallare le scene riguardanti le precedenti storie d’amore di Tamas, teneri focus sui personaggi della sua famiglia che per lui hanno avuto importanza nel suo percorso di formazione (primo fra tutti, suo padre – solito scrivere poesie a colei che sarebbe diventata sua moglie – e la sua cara zia Vali, forse unica, vera confidente delle sue pene amorose).
Un lungometraggio, questo di Gabor Reisz, che non esita a toccare anche temi spinosi (vedi l’esperienza del lutto) e argomenti legati all’attualità (solo accennato, a tal proposito, è la questione del terrorismo), ma che, in fin dei conti, è, di fatto, un’opera cinematografica leggera come una piuma, forse un po’ furbetta e che vive, in parte, di rendita grazie quanto altri hanno fatto in passato, ma che, tutto sommato, riesce a centrare appieno ciò che vuole mettere in scena, evitando ogni pericolosa retorica di cui lavori come il presente sono sempre ad alto rischio.

Marina Pavido

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