Dolore e catarsi
Il Far East Film Festival 2019 si è aperto all’insegna delle forti emozioni. Né ciò ha sorpreso il folto pubblico che venerdì sera ha affollato il Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Fin da quando gli organizzatori della rassegna udinese hanno annunciato che il primo film a venire proiettato sullo schermo sarebbe stato il coreano Birthday, opera prima della giovane Lee Jong-un, già aiuto regista di Poetry, l’attesa si è fatta palpabile tra le file degli appassionati. Cinque anni dopo il naufragio del traghetto Sewol, alla memoria delle cui più di 300 vittime era stato dedicato il FEFF 2014, si è tornati ad omaggiare il ricordo di quelle (giovanissime perlopiù) vite spezzate. E lo si è fatto con un’opera prima ricca di pregi, pur essendo percorsa anche da qualche lieve, forse inevitabile, difetto.
Quando il figlio maggiore Sun-ho annega in mare a seguito del disastro del traghetto Sewol, tra i restanti membri della sua famiglia si allarga una profonda crepa che li divide. Mentre il padre, infatti, che lavora in Vietnam, finisce in prigione per tre anni a causa di un incidente occorso sul suo luogo di lavoro (per poi però venire assolto), la madre, assieme alla secondogenita, ancora bambina, tenta di proseguire la propria vita in Corea del Sud. Ma il lutto è grave, profondo e il dolore riaffora in continuazione: neanche il ritorno in patria del marito sembra poterlo colmare, ma anzi pare quasi aggravarlo e renderlo più presente. Nel frattempo si avvicina la data di quello che sarebbe stato il compleanno del figlio e uno psicoterapeuta consiglia loro di festeggiarlo nel ricordo di Sun-ho.
Ci sono strappi difficilissimi da ricucire in Birthday. I protagonisti si muovono lenti, timorosi anche nei gesti, nei passi e negli spostamenti, come se tutta quella sofferenza che è piombata loro improvvisamente addosso, e che di continuo ritorna a colpirli come un’onda maligna, li attendesse in agguato ad ogni angolo. Così è, in effetti, e le pareti stesse dell’appartamento dove la donna abita con la figlioletta sembrano incapaci di contenere una disperazione talmente immensa e totalizzante, mentre la pianta stessa della casa, nelle scelte registiche di Lee Jong-un, converge attorno a un unico punto che tutto risucchia come un buco nero: la stanza di Sun-ho. La stanza del figlio era il titolo del capolavoro di Nanni Moretti che trionfò a Cannes nel 2001. Come in questo caso il lutto per la perdita del figlio è divisivo all’interno del nucleo familiare. Le emozioni contrastanti provate dal padre, dalla madre e anche dalla sorella, che dopo la morte del fratello ha sviluppato una forma d’idrofobia, si presentano come isole incomunicabili tra loro. La donna precipita in un abisso da cui nessuno pare capace di farla uscire: strazianti le scene in cui rilegge gli ultimi messaggi di Sun-ho inviati pochi istanti prima della morte, così come i flashback e soprattutto la crisi di pianto che l’assale mentre accarezza i vestiti del figlio. Scena, quest’ultima, emblematica anche per quanto riguarda lo stile adottato da Lee Jong-un: progressivo e rispettoso l’avvicinamento della cinepresa alla stanza dove la donna (una grande Jeon Do-yeon, premiata anche col Gelso d’Oro alla Carriera prima della proiezione) è prostrata, in lacrime, sul letto di Sun-ho.
Non vi è solo lo strappo tra prima e dopo la tragedia da ricucire in Birthday, ma anche quello creatosi nella coppia tra i due genitori. Il finale del film, dopo una seduta di gruppo con lo psicoterapeuta che rappresenta un vero e proprio spartiacque, anche all’interno di Birthday, e ha un’evidente funzione catartica (il cui prolungarsi eccessivo, però, costituisce il principale difetto dell’opera), ci restituisce un quadro familiare sereno, che tenta di ricostruire la propria quotidianità e di farlo insieme, mentre una risata del padre assieme alla figlia anticipa i titoli di coda e assume su di sé la forza non solo di una famiglia che riparte, ma quella di un intero Paese che comincia a guardare al domani dopo la perdita di tanti, troppi, suoi giovani figli.
Marco Michielis