Spiccare il volo
Prima dal taglio del nastro di partenza del 78° Festival di Cannes, in Italia si distribuiscono ancora quelli che sono stati i film più importanti e apprezzati della passata edizione. Tra le pellicole che mancavano all’appello c’era Bird, l’ultima straordinaria opera di Andrea Arnold che proprio sulla Croisette ha fatto il suo debutto nel maggio del 2024. Anteprima, quella, alla quale sono seguite proiezioni in altre prestigiose kermesse come quelle di Toronto, San Sebastián, Londra, Telluride e Roma, laddove si è aggiudicata il premio per il miglior film di “Alice nella Città”.
In Bird, la Arnold racconta la storia di Bailey, una dodicenne che vive in una casa occupata abusivamente nel nord del Kent con il giovanissimo padre Bug, uno scapestrato circondato da amici senza prospettive, il fratello Hunter e Kaleygh, la nuova fiamma del padre. È una ragazza sensibile e ribelle, che passa il proprio tempo con i giovani teppisti della zona o, più spesso, da sola. La sua vita cambia quando incontra Bird, misterioso vagabondo alla ricerca dei genitori, con cui stringe una profonda amicizia.
Il risultato è un racconto di formazione tra favola e periferia, dove lo sguardo di una ragazza alla ricerca della propria identità e della propria dimensione rende magico tutto quello che le si presenta davanti. In tal senso, quest’ultima fatica dietro la macchina da presa, la quinta di finzione alla quale si va poi ad aggiungere il bellissimo documentario Cow, rispecchia in pieno il modo di fare e concepire la Settima Arte della cineasta di Dartford, riassumendone tanto il percorso autoriale quanto quello più specificatamente tematico e narrativo. Anche stavolta si parte da quella che è sempre stata un’ossessione dell’autrice, ossia il perché le persone diventano ciò che sono. Un perché che è legato profondamente al suo forte interesse nei confronti della psicologia e delle esperienze umane. Elementi che hanno un primo e fondamentale innesco nelle fasi iniziali dell’esistenza. Ecco che in questo, come nei suoi film precedenti, al centro vi sono delle anime giovani e tormentate, donne spezzate, adolescenti riottose e indimenticabili. Il personaggio di Bailey, alla pari di tutte le figure femminili che si affacciano sullo schermo nel corso della timeline (vedi la madre biologica, la nuova compagna del padre o la fidanzatina del fratello), fanno parte integrante della suddetta galleria. Impossibile non condividerne le emozioni, belle e brutte che siano, con il cuore dello spettatore che palpita all’unisono con il loro per via della grande vicinanza che la regista riesce a creare tra i personaggi e il fruitore. Distanza che viene ulteriormente accorciata dalle intense performance degli attori chiamati in causa, dove spiccano la giovanissima e talentuosa Nykiya Adams e due magnetici interpreti come Barry Keoghan e Franz Rogowski. Solo loro l’altro valore aggiunto di un’opera.
Tutto è tremendamente vero, restituito da una macchina da presa a mano che si attacca e respira con i personaggi, trovando il punto d’incontro e di equilibrio tra tragedia e commedia, realtà e persino fantasia quando nel racconto si apre un’inattesa quanto folgorante crepa soprannaturale. Il tutto messo in scena sullo sfondo di un contesto appartenente al sottoproletario britannico, lo stesso che è solito ritrarre Ken Loach. Qui la regista posa il suo sguardo su una realtà sociale come quella del sud-est dell’Inghilterra, tra violenze domestiche e spedizioni punitive di gang di ragazzini abbandonati a se stessi, entrando e uscendo dalle dinamiche private di una famiglia disfunzionale. Ma rispetto al connazionale, la messa in quadro della Arnold è molto più dura e diretta, al punto da non fare sconti, con scene dal fortissimo impatto emotivo come quella della ribellione della protagonista contro il compagno violento della madre che lascia letteralmente senza fiato.
Francesco Del Grosso









